Suicidio in carcere a Venezia, la moglie denuncia: «Grave negligenza nei controlli»
Silvia Padoan, compagna del tunisino di 38 anni che si è tolto la vita: «Li avevo avvertiti delle sue intenzioni»
Marta Artico
Silvia Padoan e il marito Bassem Degachi, 38 anni, che si è tolto la vita nel primo pomeriggio di martedì in carcere
«Scusa amore se ti lascio sola, di’ alla mia famiglia che gli voglio bene». Sono le ultime parole di Bassem Degachi, il 38enne tunisino destinatario, nell’ambito dell’operazione su via Piave, di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a Santa Maria Maggiore, per reati commessi nel 2018, che si è suicidato nel bagno della casa di detenzione.
Ora la moglie, Silvia Padoan, chiede giustizia. «Voglio sapere cosa è accaduto a mio marito, voglio sia fatta luce sulle sue ultime ore di vita, perché nessuno ha fatto nulla nonostante le mie continue chiamate. Non corrisponde nemmeno l’ora del decesso. Ho chiamato l’ultima volta in carcere alle 14.41, le onoranze funebri dicono che la morte risale alle 14.42. Possibile?».
La donna, non se ne capacita: «Domani (oggi ndr) ci recheremo alla Polizia, per sporgere denuncia per omissione di soccorso. Da quando mio marito ha iniziato a chiamarmi, dopo le 9, è stato un crescendo.
Lui chiamava me e minacciava di impiccarsi, io telefonavo al carcere per dire di andare a vedere. C’è un bottone che si usa per chiamare, come in ospedale, in questo casonon lo ha usato, ma spesso lo ha utilizzato e loro non sono andati, è successo più volte.
Lascorsa settimana si era sentito male e ha dovuto contattare l’avvocato per far arrivare qualcuno in cella».
L’ultima chiamata del marito, è arrivata alla donna alle 12.21. «Era in lacrime, mi ha ripetuto che gli spiaceva lasciarmi sola, di dire ai “suoi” che li amava. Io gli ho passato la cognata, anche lei gli ha ribadito che si sarebbe tutto risolto, ma lui ha detto che ogni cosa era perduta.
Sembrava un leone, ma non lo era. E non ha avuto le forze, non ha retto». Racconta ancora: «È tornato dentro il tunnel, ha visto tutto nero. Io non incolpo nessuno singolarmente, ma il sistema.
Nel reparto di semi libertà i detenuti si possono uccidere senza che nessuno se ne accorga, come è accaduto a mio marito». Continua: «Ho saputo come era morto dalle onoranze funebri in obitorio, dove eravamo andati per cercare di vederlo, l’ora del decesso non torna, l’ultima volta ho chiamato alle 14.41 per dire di andare da lui e mi è stato ripetuto ancora “Signora stia tranquilla”».
Chiude: «È una negligenza grave, vogliamo spiegazioni e soprattutto giustizia». Ieri per sapere notizie in merito alla morte del tunisino, si è mosso anche il Consolato di Tunisia di Milano, che ha chiamato il legale, Marco Borella.
La moglie, anche lei convertita all’Islam, ha deciso che la salma, una volta eseguiti i riti musulmani, tornerà a casa.
«Questa vicenda ci tocca profondamente sul piano umano», si limita a dire la direttrice del Carcere Immacolata Mannarella «Siamo tutti molto scossi». Anche il legale lo è: «Avrei dovuto vederlo stamattina (ieri ndr), per dirgli di stare tranquillo, perchè quell’ordinanza non aveva senso.
Forse sarebbe bastato perché non accadesse il peggio: il destino ha voluto che l’aggiornamento della sua posizione in termini restrittivi, sia stato deciso dalla Procura il 18 ottobre, stesso giorno in cui il tribunale di sorveglianza gli aveva concesso la semi libertà.
Da due anni segnaliamo carenze nella magistratura del tribunale veneziano, ma sembra non interessi nemmeno alla Procura, adesso si rendono conto che le misure cautelari vengono richieste mesi dopo, questa addirittura tre anni dopo.
E la motivazione del giudice è l’esatto contrario di quella che gli ha concesso la semi libertà. Non è attuale perché non sussiste il pericolo di “recidivanza”, la tempistica è sbagliata.
Dopo tre anni una persona trova lavoro, cambia vita e gli bloccano tutto? Dicono che il mio cliente fosse tranquillo, ma alle 8 di martedì mi aveva chiamato il carcere. Cercheremo di capire cosa sia accaduto. E chiederò i tabulati delle chiamate della moglie».
La Comunità islamica di Venezia e provincia interviene in merito.
Spiega il presidente Sadmir Aliovsky: «Né io né l’imam possiamo entrare in carcere, siamo in attesa della conclusione della pratica che abbiamo presentato un anno e mezzo fa. Chiediamo di prestare servizio spirituale per evitare simili tragedie e dare sostegno a chi sconta le pene, che ha diritto sempre di sentire la propria fede vicina».
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