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Settecento negozi di Venezia hanno chiuso nella pandemia

Report di Confesercenti e Iuav sulle attività commerciali. «Penalizzate le attività legate essenzialmente al turismo»

Vera Mantengoli
2 minuti di lettura

VENEZIA. O si studia un piano di ripresa per la città oppure si rischia di dare il colpo finale alle attività sopravvissute alla pandemia. È questo il messaggio lanciato ieri dalla sede di Confesercenti a Castello in occasione della presentazione del laboratorio sull’impatto della pandemia in città, coordinato dalla professoressa di Urbanistica Laura Fregolent dell’Università Iuav.

I risultati, riguardanti la città storica, dimostrano che su 3159 attività commerciali 2359 sono in uso e 790 sono inattive: 472 sicuramente a causa della pandemia, mentre le rimanenti 318 probabilmente a causa della pandemia (di queste ultime non si è avuto un contatto diretto con il proprietario). Quello che è certo è che le attività chiuse sono quelle che erano destinate esclusivamente ai turisti, quindi in gran parte riguardano i settori dell’abbigliamento e della ristorazione. «C’è bisogno di una cultura dei dati per fare una fotografia di com’è la nostra città ed elaborare un piano di rinascita» hanno detto per Confesercenti Alvise Canniello, Emiliano Biraku e Cristina Giussani che hanno inoltre ricordato come da tempo si chieda all’amministrazione comunale un aiuto per tutte le attività, non solo per quelle della ristorazione.

«Abbiamo chiesto due metri quadrati per botteghe o altre attività esporre la propria merce fuori. L’amministrazione a voce ha detto sì, ma poi sulla carta si è dimenticata» spiega Giussani. «Ora, nel periodo delle festività, questo aiuto sarebbe importante dato che siamo ancora in crisi».

In città ci sono 4067 attività commerciali, artigianali e alberghiere, mentre le commerciali sono 3159 tra le quali spiccano 377 bacari, 260 ristoranti, 157 negozi di souvenir, 394 negozi di abbigliamento e 264 per la cura della persona. La pandemia ha colpito soprattutto l’area marciana dove su 418 attività 232 sono utilizzate e le restanti no (89 chiusura volontaria, 55 per abbandono, 4 chiuse per sempre, 14 per manutenzione e 24 per cause sconosciute).

Lo studio di Fregolent mostra come l’impatto non sia stato soltanto sull’attività, ma anche sul personale che ha dovuto sospendere il lavoro. Tuttavia durante la pandemia sono emerse anche delle realtà positive, come la rete di volontari che portavano il cibo a casa, per esempio i CocaiExpress, ora diventati una start up, e i negozi di vicinato che sono stati durante il lockdown un punto di riferimento per i residenti.

«La pandemia ha influito sulle attività veneziane perché la città è basata su una monocultura turistica, ma proprio perché ora siamo ancora fermi, dobbiamo riflettere su come rilanciare Venezia mettendo anche la cultura al centro di questa trasformazione» hanno detto i tre relatori. «Per esempio, oltre al delivery di cibo si può pensare anche a quello dei libri o a dei percorsi per valorizzare i Musei Civici, in gran parte chiusi».

La proposta, già accennata in passato alla Regione da Confesercenti, è quella di un distretto commerciale nella città storica, volto a mantenere vivo il legame tra residenti e attività. «Dobbiamo attivare delle cabine di regia che mantengano in vita il commercio anche attingendo al Pnrr» ha detto Biraku. «I modelli che si stanno studiando di happy city basati sul camminare e di learning city per insegnare la sostenibilità potrebbero benissimo essere calati su Venezia, ma bisogna volerlo». Tra le idee da esplorare, quella di utilizzare posti sfitti per ritirare la merce online che sempre più convive con quella di vicinato, senza che ovviamente ne prenda il posto.

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