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Il poliziotto condannato a 5 anni «Donadio? Favori in buona fede»

Moreno Pasqual parla dopo un lungo silenzio. E il suo avvocato: «Una forzatura parlare di sodalizio mafioso, al massimo si parla di associazione a delinquere»

Giovanni Cagnassi
2 minuti di lettura

ERACLEA

«Sono sempre stato in buona fede e i favori che avrei fatto a Luciano Donadio e che mi sono stati contestati non ritenevo avessero nulla di illecito». Il poliziotto di Jesolo Moreno Pasqual parla dopo un lungo silenzio e una sentenza che lo condanna a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, accusato di aver fornito informazioni riservate al clan o di suggerire loro di far sparire armi e documenti quando vi erano controlli in arrivo.

Difeso dall'avvocato Paolo Nieri del foro di Treviso, attende ora di leggere attentamente le motivazioni della sentenza prima di decidere l'impugnazione. Lo stesso legale ha evidenziato la buona fede del suo assistito, parlando di una confidenza con Donadio che aveva alla base in realtà un'amicizia tra le rispettive compagne i cui figli frequentavano la stessa scuola. Ma il legale va oltre e si dice certo che cadranno anche le accuse per mafia nell'intero impianto processuale. Una convinzione che è frutto dell'analisi degli atti contenuti nelle corpose indagini che presupporrebbero dunque la sola associazione per delinquere. Secondo la difesa a Eraclea non c'era alcun sodalizio criminoso o mafioso, quindi un reato contro l'ordine pubblico. Perché si tratti invece di un’associazione di tipo mafioso, con pene più gravi, si deve far ricorso al «metodo mafioso per il perseguimento di alcuni scopi specifici». E questo secondo Nieri non è il caso di Eraclea. «La sentenza ci lascia quanto meno perplessi» premette l'avvocato «così come in generale tutto l'impianto accusatorio a prescindere dalla posizione di Moreno Pasqual. Il concorso esterno per atti a favore di Donadio non sussiste. Il mio assistito è accusato di essere intervenuto per litigi in cui erano coinvolti i figli di Donadio, per averlo informato se era indagato o meno, quindi fatti di poco rilievo. Ma definire mafia quello che accadeva a Eraclea non ha alcun senso né fondamento. È una forzatura. Il codice penale definisce già concretamente cosa sia un'associazione per delinquere cui sono riconducibili gli episodi accaduti a Eraclea. La mafia è un'altra cosa, ha altre regole. Le cosche hanno capi e gerarchie ben precise, arrivano a intimidire l'intera popolazione.

A Eraclea non abbiamo avuto uno stato di soggezione e una paura tali da poter definire la presenza della mafia. Non c'era terrore o omertà diffusa. Il mio assistito non poteva pensare che Donadio fosse a capo di un vero e proprio clan. Stiamo parlando di piaceri e confidenze legate all'amicizia delle rispettive mogli. E Pasqual non aveva la più pallida idea che Donadio fosse un criminale a capo di un clan che poi non esisteva. Sono certo» conclude il legale, «che i giudici stessi escluderanno la mafia a Eraclea e si potrà parlare al massimo di associazione a delinquere». —

Giovanni Cagnassi

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