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Il professor Giron a 85 anni torna in prima linea. "C’è bisogno, ci sono"

Il direttore sanitario di Villa Salus, veneziano ed ex docente, ha accettato l’invito dalla sala operatoria di Padova

enrico ferro
3 minuti di lettura

l’intervista

Riecco Giampiero Giron, 85 anni, veneziano, già professore ordinario e primario di Anestesia e Rianimazione a Padova. La sanità veneta chiama e lui risponde senza pensarci un attimo, ora che servono professionisti in grado di gestire il lavoro nelle terapie intensive. «Quando nella vita si decide di fare il medico, se c’è bisogno bisogna mettersi in gioco. Chiamarsi fuori è incoerente con il giuramento di Ippocrate». E quindi si dice pronto, ancora una volta. Come lo fu il 14 novembre 1985, quando dovette praticare l’anestesia a Ilario Lazzari, il primo trapiantato di cuore in Italia.

Professor Giron, davvero le hanno chiesto la disponibilità a tornare in sala operatoria?

«Un primario dell’azienda ospedaliera di Padova mi ha chiesto se, in caso di necessità, potesse contare su di me. E io ho risposto sì, ovviamente».

Non pensa che sia un rischio, per un uomo della sua età, venire a contatto con pazienti contagiati dal coronavirus?

«Chi ha paura di ammalarsi è meglio che non faccia il medico. Le occasioni di contrarre patologie sono molte. Se penso a quanti chirurghi si sono beccati l’epatite. Questo fa parte del gioco. Io regolarmente ai primi di settembre mi faccio la vaccinazione tetravalente anti influenzale: un po’ di anticorpi li ho, anche se non sono specifici sul coronavirus. Per il resto bastano mascherina, guanti ed è fatta».

A 85 anni crede di avere ancora la lucidità che serve per questo mestiere?

«Io penso di poter ancora fare le cose come si deve. Finché mi sento in grado di gestire ciò che faccio, continuerò a farlo. Alla prima incertezza mi fermerò, questa è una regola che ho sempre avuto in testa».

In realtà lei non ha mai smesso di lavorare, neanche dopo la pensione.

«Penso che la pensione sia la morte civile, quindi mi sono dato da fare. Sono direttore sanitario alla clinica privata Villa Salus a Mestre e continuo ad andare in sala operatoria quasi ogni settimana. Così mi tengo in allenamento».

Lei era in sala operatoria anche in occasione del primo trapianto di cuore: storia della medicina italiana.

«Era notte fonda, dovemmo aspettare il consenso del Ministero. Ricordo tutto come fosse ieri. C’era Vincenzo Gallucci accanto a me. Con un colpo di defibrillatore il cuore nuovo iniziò a battere. Ci fu un applauso generale».

C’è qualche altro passaggio importante della sua carriera?

«Quando ho iniziato non c’era separazione tra chirurgia e anestesia: un medico faceva il chirurgo e anche l’anestesista. Io posso dire di aver fondato all’università di Padova l’istituto di Anestesia e Rianimazione come disciplina autonoma. In altre università era già avvenuto questo cambiamento ma su base locale no».

Tornando all’emergenza, cosa ne pensa dei giovani laureati in medicina subito abilitati alla professione?

«Penso che si diventa medici con l’esame di Stato. Quando mi laureai io l’esame di Stato e non si poteva fare nella stessa università. Lo dovetti fare a Bologna, perché avevo studiato a Padova. Questo Paese aveva delle regole molto belle ma la severità è andata persa».

E delle specialità cosa pensa?

«Così come sono strutturate sono un’immensa sciocchezza».

Chi è più efficiente tra un neolaureato e un pensionato come lei?

«Molto dipende se chi va in pensione continua ad aggiornarsi. Se un professionista non si aggiorna allora il neolaureato può perfino risultare migliore».

Cosa ne pensa di questa pandemia?

«Pestilenze nella storia dell’umanità ce ne sono state tante. Questa è una delle tante. Verrà ricordata come viene ricordata l’asiatica del ’58».

Crede che la chiameranno per entrare in servizio, in questi giorni?

«Io ho detto che ci sono e sono pronto. Tengo il telefonino sempre in mano, per rispondere subito se c’è bisogno».

Il suo è stato un lavoro o una missione?

«Ho fatto il medico come meglio ho potuto, anche se devo dire la verità ho scelto questa professione perché mio papà ci teneva molto. Dirigeva una filiale Comit a campo San Bartolomeo a Venezia. Voleva che suo figlio facesse il medico e non me la sentii di tradirlo. Se avessi dovuto dare retta ai miei sogni, avrei fatto il fisico e quindi l’astronauta. Ma è andata così e, tutto sommato, sono soddisfatto».

Come hanno reagito moglie e i suoi tre figli a questa sua disponibilità sul fronte del coronavirus?

«Sanno quanto amo il mio lavoro. Mi hanno detto semplicemente di fare attenzione».

Lei abita a Padova ma è originario di Venezia, giusto?

«Abito a Padova ma il mio cuore è a Venezia. Abitavo alle Zattere, sono del ’34, avevo 6 anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Posso dire di aver fatto il bagno più e più volte nel canale della Giudecca senza paura di prendere la multa».

I suoi figli hanno seguito le sue orme?

«Uno è ortopedico a Firenze, mentre mia figlia è professore associato di Farmacologia all’Università di Padova. —

enrico ferro

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