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Le spese milionarie dei coniugi Nardin con i soldi dei clienti

Jesolo. Depositate le motivazioni della sentenza che ha portato a una condanna complessiva di 11 anni. «Gli imputati non meritano sconti per l’altissimo numero di persone offese e il danno loro arrecato»

di Rubina Bon
2 minuti di lettura

JESOLO. «L’altissimo numero di persone offese, il danno loro arrecato sia dal punto di vista patrimoniale che morale, il periodo coperto dalle condotte contestate e la disinvoltura con cui gli imputati hanno speso quanto sottratto alle vittime in oggetti superflui inducono a ritenere il fatto così grave da non meritare alcuno sconto di pena»: lo scrive la giudice monocratica Claudia Gualtieri nelle motivazione della sentenza di condanna a 7 anni per il ragionier Nicola Nardin e 4 anni alla moglie Luisella Bozzato per le 31 truffe aggravate messe a segno nel periodo successivo a giugno 2010. I due non hanno versato al Fisco oltre 2 milioni di contributi e Iva che cittadini e società avevano consegnato regolarmente allo “Studionardin” di Jesolo. Nardin e Bozzato erano invece stati assolti dal falso e Nardin dall’evasione fiscale.



Quanto alla posizione di Nardin, la giudice scrive che le prove assunte a suo carico sono «talmente schiaccianti da far passare in secondo piano le dichiarazioni confessorie rese», aggiungendo che l’ammissione degli addebiti era arrivata «nel momento in cui non riusciva più a controllare la situazione». Sulla posizione della Bozzato, che Nardin ha cercato di scagionare in uno scritto consegnato al tribunale, la giudice sostiene che «Le sottrazioni sono iniziate in coincidenza con l’ingresso in studio della Bozzato e che la carica di legale rappresentante da lei ricoperta (dal 2009, ndr), soprattutto in relazione al fatto che l’imputata non era estranea allo studio ma vi lavorava stabilmente, non è certo neutra e assume valore pregnante, comprovato dal fatto che l’imputata percepisse lo stipendio tutt’altro che trascurabile di 120 mila euro l’anno.

Nella sua confessione, il ragioniere aveva detto di aver agito così perché costretto dalla necessità di pagare l’usuraio Roberto Tegon (che ha già patteggiato due anni). «È privo di qualsivoglia logica che chi assume di essere vittima di usura e preda del proprio strozzino spenda in beni assolutamente voluttuari quali abbigliamento, ristoranti e vacanze le cifre che Nardin e la Bozzato erano in grado di sperperare», scrive la giudice richiamando la definizione di «tenore di vita alla Kardashian» data da un testimone. Le perquisizioni effettuate a casa degli imputati, come richiamato nel dispositivo, avevano portato al sequestro di una quantità spropositata di articoli di abbigliamento e accessori di lusso, soprattutto da donna: nel solo disimpegno della camera c’erano 77 paia di scarpe da donna firmate, nel guardaroba 52 borsette extralusso. Aggiunge la giudice che «Il denaro sottratto ai clienti dello studio era principalmente destinato alla Bozzato e da lei speso». Nelle motivazioni della sentenza, la giudice passa in rassegna le posizioni delle parti offese, tra storie di disperazioni e vite rovinate. Come quella del titolare di una società che in aula aveva raccontato: «Ho perso l’attività perché è stata messa in vendita per poter saldare il mio debito verso lo Stato. Adesso non ho niente e sto lavorando a 65 anni per mantenermi». Se per la maggior parte delle vittime Nardin aveva ammesso le sottrazioni di denaro, per l’usuraio Tegon le aveva smentite. «Pare veramente strano che a fronte di una truffa generalizzata nei confronti dei propri clienti, Nardin abbia risparmiato solo Tegon», evidenzia la giudice.



Il ragioniere, come peraltro aveva sottolineato il pm Roberto Terzo nella requisitoria, truffava i clienti facendo leva sull’amicizia. La giudice usa parole dure: «L’imputato ha agito in modo estremamente scaltro, profittando della fiducia legata a rapporti di amicizia e a momenti in cui le persone offese per motivi di lavoro erano distratte, nonché era a dir poco reticente a consegnare loro la documentazione contabile». La sentenza potrà essere impugnata in appello.

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