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«Così abbiamo costruito la casa di Zara»

Proprietario e architetto raccontano i segreti del restauro da 14 milioni dell’ex Pilsen. Venerdì l’apertura al pubblico

di Manuela Pivato
2 minuti di lettura
Svuotato, bonificato, rigirato come un calzino; e poi tenuto in piedi con un castello d’acciaio, ricostruito mattone dopo mattone, finestra dopo finestra, trave dopo trave, buttando giù muri, stanze, solai, tramezzi, budelli, sgabuzzini e pertugi a beneficio di un open space pieno di luce con vista a 360 gradi distribuito su quattro piani.

La nuova vita modaiola dell’ex Pilsen inizierà venerdì, quando, dopo tre anni di restauri e più di qualche patema, aprirà il mega store di Zara: 2.800 metri quadrati di abbigliamento low cost grazie al contratto di locazione stipulato davanti a fior d’avvocati tra la proprietà – la Mediterranea Sviluppo di Piero Coin – e il colosso spagnolo che da anni cercava un punto vendita in laguna.

Si chiude così per il complesso affacciato su bacino Orseolo e sulla Frezzeria un secolo non brillantissimo, che l’ha visto ospitare, nei decenni, la birreria Pilsen, l’hotel Manin, gli uffici del Tribunale, quelli del Ministero per l’Ambiente, i depositi e la mensa del Museo Correr, fino a passare – negli anni Novanta – nelle mani del Comune che l’aveva acquistato dalle Generali per poi rivenderlo, nel dicembre del 2010, all’imprenditore veneziano.

«C’erano svariate ipotesi di utilizzo dell’immobile» racconta Coin «ma ci siamo sempre impegnati a non trasformarlo in albergo perchè una destinazione di questo tipo non sarebbe stata un contributo per la città».

La trasformazione da semi magazzino in negozio di abbigliamento, costata 14 milioni di euro, come spiegano a un passo dalla meta Piero Coin e lo studio TA Architettura di Alberto Torsello che ha curato l’intervento, non è stata quel si dice una passeggiata, sebbene non ci fossero praticamente vincoli, visto che l’edificio era stato giudicato dalla Sovrintendenza «irreversibilmente alterato».

Ciononostante il complesso, formato da quattro edifici vicini (due ottocenteschi sulla Frezzeria e due novecenteschi su Bacino Orseolo), era un’infilata di stanze e stanzette, di vecchi solai e muri fuori squadra che sono stati interamente abbattuti per creare uno spazio unico, collegato da un’ampia scalinata, una scala mobile, gli ascensori e i montacarichi, rischiarato da duecento finestre, tra cui quelle sopra l’Hard Rock Cafe che ora sono lunghe lunghe e strette strette come quelle medievali, a scavalco tra il piano dei piumini e quelli dei blue jeans.

Ma se buttare giù tutto sommato è stato semplice, portare fuori tonnellate su tonnellate di calcinacci, è stata forse l’operazione più complessa, eseguita soprattutto di notte, per non intralciare i gondolieri, dopo aver spezzettato i mattoni, sminuzzato le travi, polverizzato le vecchie porte, triturato gli infissi e aver messo i detriti sottovuoto per poi trasportarli fino alle barche grazie a carriole dotate di ruote di gomma (per non far rumore) e controllate a distanza.

L’imponente restauro del complesso, che con l’eliminazione di alcuni solai ha ridotto la superficie da 3.400 metri quadrati a 2.800, ha comportato anche la creazione di un castello d’acciaio all’interno dell’immobile per consentire la sostituzione dei vecchi mattoni con quelli nuovi. Gli spazi ridotti intorno all’ex Pilsen, la mancanza di una riva d’acqua privata, il dedalo di callette che lo circondano hanno decretato, oltre al ritmo, anche le dimensioni e i pesi dei materiali: putrelle, travi, barre d’acciaio tutto su misura, e poi assemblato nel cantiere.

Da quattro mesi, per l’allestimento, sono al lavoro 180 operai di Zara, impegnati giorno e notte e collegare luci, posizionare scaffali, girare specchi, allineare attaccapanni e addobbare camerini in tempo per venerdì.

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