Cos’è successo?
«È successo, come ha scritto bene Marco d’Eramo nel suo libro “Il selfie del mondo” che, ogni anno, ci sono un miliardo e 200 mila persone che viaggiano, con voli low cost, e tutti vogliono vedere almeno una volta nella vita Venezia».
Quindi è un problema mondiale?
«Sicuramente è un problema che riguarda tutti, ma Venezia, lo soffre molto più di altre realtà. Il punto è che non ci sono strumenti politici ed economici per contrastare questo fenomeno che ci ha fatto ritornare a cento anni fa, prima di Porto Marghera, quando il turismo era chiamato l’industria del forestiero».
E oggi?
«Oggi molti di noi sono al tempo stesso albergatori e turisti, fornitori e consumatori. Quanti sono i residenti che non hanno un bar o un bed & breakfast o una qualsiasi attività legata al turismo? Quanti sono realmente i veneziani che non vendono Venezia? La situazione ormai sta diventando speculare. Ogni tanto sento dire che bisogna appellarsi. Ma, io mi chiedo, appellarsi a chi?».
Ai pochi rimasti...
«Siamo 50 mila contro un miliardo e 200 mila persone. È una guerra persa. Saremo ricordati come la generazione responsabile di aver consumato Venezia, di non aver saputo contrastare la sua distruzione. Avremo questo bel merito storico».
Nessuna speranza, dunque?
«Sono contro l’ineluttabile, però sinceramente non vedo come si possa contrastare un processo planetario, per di più in una città che è vissuta sulla pelle dei visitatori».
Cosa si poteva fare per non arrivare fino a questo punto di non ritorno?
«Si poteva invocare uno stato d’eccezione. Ma se non riusciamo nemmeno a convincere che le grandi navi distruggono la città, mi pare difficile arrivare a provare l’eccezionalità mondiale di Venezia».
E oggi?
«Oggi proporrei la stessa cosa; ma poiché è evidente che comanda l’economia, nessuno, a nessun livello politico, ce la può fare da solo. Ci vorrebbe una catena tra Comune, Regione, Stato italiano e Unione europea e tutti insieme dovrebbero riconoscere l’eccezionalità di Venezia dandole strumenti fiscali e legislativi adeguati».
Altrimenti?
«Altrimenti, ripeto, i posteri diranno che abbiamo allegramente dilapidato la nostra città».
Ormai sempre più spesso la città pare sul punto di scoppiare.
«Questa è un’altra possibilità, paradossalmente, di salvezza. Quando un posto è troppo turistico la gente non ha più voglia di visitarlo. Ricordo che una volta, a un convegno, il filologo Rudolf Behrens mi sussurrò all’orecchio: mi raccomando, non scriva mai di Pellestrina, non ne parli mai. Voleva così salvare l’isola».
E si è salvata?
«Non tanto, purtroppo, anche lì sono arrivati i turisti e, se tanto mi dà tanto, nei prossimi anni sono destinati ad aumentare. Quello che potrebbe succedere, invece, è che i turisti si disamorino della città, che si stanchino di essere spinti nelle calli, di trovare gente ovunque. In questo senso si potrebbe arrivare a una sorta di saturazione e la saturazione è sempre corrosiva».
Cosa le dà più fastidio?
«Non sono i due che fanno l’amore a Rialto o quelli che si tuffano dal ponte di Calatrava. Per quanto mi riguarda posso dire che quando un turista mi chiede indicazioni, con il cuore largo di felicità lo accompagno. Quello che mi addolora sono le occasioni mancate. Questa quantità di persone impedisce di godere della specificità veneziana. Venezia è prima di tutto un’esperienza fisica, e quella resta, ma è anche è tattile, visiva. Mi spiace che i 30 milioni di persone che arrivano in laguna siano di fatto impossibilitati a capire com’è la città».
Quindi Venezia non è più un pesce?
«No, è diventata un gabbiano reale feroce».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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