Dabalà testimonia in aula e scagiona tre accusati
Il commercialista Menegazzi accusato di essersi intestato i beni del trafficante ha rinunciato agli incarichi che gli erano stati affidati dal Tribunale fallimentare

CAMPALTO. Per la prima volta Massimo Dabalà, il pregiudicato che ha patteggiato cinque anni di reclusione per un esteso traffico di cocaina, ha testimoniato in aula nel processo contro tre suoi coimputati, i trevigiani Mariano Bonato e la figlia Maria, entrambi di Giavera del Montello, e il chioggiotto Ferruccio Nardo. A chiedere la sua presenza è stato il pubblico ministero Carlotta Franceschetti, uno dei due magistrati che hanno coordinato le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo di Mestre. A differenza di quello che è stato considerato il capo e di numerosi altri indagati, che hanno patteggiato, i Bonato e Nardo hanno scelto di finire davanti ai giudizi del Tribunale in modo che i loro avvocati difensori possano battersi per l’assoluzione.
Stando alle accuse, riassunte nel capo d’imputazione, la casa dei Bonato sul Montello era uno dei luoghi in cui il mestrino Dabalà sarebbe andato a rifornirsi di cocaina per poi nasconderla nelle barene della laguna attorno a Campalto, dove lui abitava, prima di passarla a chi poi la spacciava agli acquirenti. In aula, Dabalà ha ammesso di aver trafficato con la cocaina, confessando le sue responsabilità, ma ha completamente scagionato i tre imputati. Ha spiegato di non aver mai acquistato un grammo di droga dai Bonato e ha aggiunto che si recava spesso da loro assieme alla sua compagna perché si trattava di amici di famiglia. Insomma, a Giavera non si parlava e non si scambiavano droga ma erano semplicemente incontri conviviali. Per quanto riguarda Nardo, il pregiudicato neppure era accusato di aver intrattenuto rapporti con lui e quindi è stato più facile sostenere che non si sono mai incontrati.
Novità per quanto riguarda il commercialista veneziano Renzo Menegazzi, interdetto per due mesi perché accusato di essersi «prestato a coadiuvare Dabalà in tutti gli investimenti realizzati», essendo amministratore unico della «Signe srl», società proprietaria dei beni immobiliari e mobiliari del trafficante. Il professionista, visto l’inchiesta penale nei suoi riguardi, ha dovuto rinunciare a tutti gli incarichi che i giudici del Tribunale fallimentare gli avevano affidato. Si trattava soprattutto di curatele fallimentari: probabilmente se non avesse compiuto lui questo passo, sarebbe toccato ai magistrati revocare gli incarichi. È evidente che, nel caso venisse assolto, tornerebbe ad avere la fiducia del Tribunale civile. Ad accogliere la richiesta di interdizione era stata la Corte di Cassazione perché il giudice aveva scritto che «occorre approfondire se abbia agito con dolo previsto dalla norma, esorbitando dal suo mandato professionale».
Giorgio Cecchetti
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