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L’ex di Pravatà al processo «Una vera persecuzione»

L’ex vicedirettore del Consorzio Venezia Nuova è accusato di stalking nei confronti dell’ex compagna: telefonate, pedinamenti, appostamenti e minacce di morte

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Riteneva probabilmente di essere il padrone in aula, tanto da avvicinarsi al giudice monocratico Enrico Ciampaglia, durante una breve pausa, per dirgli: «Giudice la vedo piuttosto stanco». Dopo un primo momento di sconcerto il magistrato lo ha rimandato al suo posto, in tutti i sensi. Roberto Pravatà, infatti, è l’imputato di questo processo: deve rispondere di aver compiuto atti persecutori nei confronti della sua ex compagna e ieri per la gran parte della mattinata ha testimoniato proprio lei, la mestrina Lucrezia Bottan.

Oltre a lei, sono stati interrogati anche la madre, la figlia e l’attuale convivente della donna. Due anni fa il pubblico ministero aveva chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari un provvedimento di allontanamento. Pravatà non poteva avvicinarsi all'ex fidanzata e alla giovane figlia, non poteva telefonarle e frequentare i luoghi dove lei si recava abitualmente.

Stando al capo d’imputazione, l’imputato, dopo che i due si erano lasciati, avrebbe molestato in ogni modo la ex: prima di tutto telefonate, tante telefonate, non solo al cellulare, anche in casa, pure in quella dei parenti quando lei non rispondeva. Poi, pedinamenti e "appostamenti" sotto l'abitazione di lei o davanti al suo negozio. L'avrebbe minacciata, anche di morte: in più occasioni le avrebbe detto «Io ti sparo». Una minaccia come un'altra se pronunciata durante una lite da una persona che non possiede pistole o fucili. L'ex vicedirettore del Consorzio Venezia Nuova, invece, armi in casa ne tiene, del tutto legalmente, ma l'ex fidanzata quella minaccia l'ha presa sul serio conoscendo la passione dell'ex compagno per le armi. Ieri, Lucrezia Bottan, che si è costituita parte civile con l’avvocato Tiziana Ceschin, ha raccontato di aver saputo della rottura del rapporto attraverso una raccomandata che Pravatà le aveva spedito a Milano, dove si trovava per lavoro. C’era scritto che il giorno dopo avrebbe dovuto prendersi i suoi vestiti e andarsene da casa sua. L’avvocato di parte civile ha poi chiesto e ottenuto di ascoltare in aula i messaggi che l’imputato aveva lasciato nella segreteria telefonica della donna: la accusava di essere in rapporti con la malavita e addirittura di avere contatti con la ’ndrangheta per un traffico di cocaina e di affidarsi a lui per venirne fuori.

Hanno poi testimoniato la madre e la figlia: la prima, che abitava nello stesso palazzo, nell’appartamento del piano terra, ha riferito che quando la figlia non c’era in più di un’occasione Pravatà suonava al suo campanello. La giovanissima figlia ha riferito che l’imputato le aveva suggerito di riferire alla madre che sarebbe andata a finire molto male. Prossima udienza il 25 marzo prossimo.

Giorgio Cecchetti

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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