Vita, morte e peripezie del clochard Giorgio Mandich, che ad una moneta preferiva una chiacchierata
Dormiva per strada a Mestre è morto dopo un breve ricovero e una vita di stenti. Da anni la sua casa era piazza Ferretto, negli anni 80 faceva parte della compagnia al Duca D’Aosta. Era un grande appassionato di motori. “Negli anni 80 guidò la Maserati, ma preferiva il suo pandino”

La morte di un senzatetto può lasciare sentimenti vivi e sinceri verso una persona sfortunata, ma molto apprezzata e stimata. E' il caso di Giorgio Mandich, il volto noto di piazza Feretto a Mestre, che con il suo modo di fare conquistava i passanti. A volte preferiva una chiacchierata invece della moneta. Il suo funerale è sabato 20 febbraio alle 11 nel duomo di Mestre.
MESTRE. Una vita in strada, conosciuto da tutti, salutato con affetto dalle tante persone alle quali regalava brevi poesie scritte su foglietti di carta, qualche pensiero, un disegno e che in cambio gli lasciavano due soldi o qualcosa da mangiare.
Per i mestrini era semplicemente Giorgio, il senzatetto che di notte dormiva come poteva in via Cappuccina e di giorno guardava la sua città in Piazza Ferretto, seduto davanti al negozio di scarpe sportive. Dopo un breve ricovero, e un’esistenza in condizioni molto precarie, Giorgio Mandich, 60 enne, è morto l’8 febbraio. Seguito da Comune, Casa Ospitalità e Ssm, il senzatetto aveva sempre rifiutato di essere ospitato in qualche struttura, scegliendo di vivere in strada, anche d’inverno.
Ultimamente, era solito stendere a terra i suoi cartoni e le sue coperte in via Cappuccina, all’angolo con via Fusinati, o davanti all’hotel Tito. Da qualche giorno la gente non lo vedeva più in giro. Era stato ricoverato in ospedale, dove è morto. Alla sua figura che, come dice qualcuno, «faceva parte dell’arredo di Piazza Ferratto», un pittore aveva dedicato anche un ritratto con il quale aveva poi partecipato al Premio Mestre di pittura. I ricordi che seguono ci dicono che Giorgio era una persona che ha lasciato un grande vuoto.
Amava i motori, era stato un importante disegnatore e collaudatore addirittura per l’Aprilia. Prima che gli eventi della vita lo strascinassero a vivere in strada. Ma chi l’ha conosciuto ci dice che aveva un cuore grande e anche quando la vita si è fatta dura con lui è rimasto quello che era. Molti gli rivolgevano quotidianamente la parola e avevano imparato a conoscere la sua educazione e il suo rispetto.
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E' morta una persona cara, perdiamo un amico
Mandich, sessantenne senza dimora, provoca una onda di cordoglio. Era presenza fissa in piazza Ferretto e spesso ad una moneta preferiva una sigaretta e un dialogo cordiale. In cambio dava poesie e disegni. Era nato in corso del Popolo e da anni la sua vita, difficile, era in strada. Sarà il Comune a occuparsi dei funerali. A dare notizia della morte è stato Michele Barison, la foto è di Paolo Bergamaschi, rilanciata da “Mestre mia”. A testimonianza di una rete di attenzione.
Come spiega questa lettera. -- È morto Giorgio: siamo tristi e addolorati perché perdiamo una persona cara. Un amico. Di più, Mestre perde uno dei suoi cittadini più noti. Sì, Giorgio lo conoscevano tutti: fin da quando tanti anni fa stava sotto i portici di piazza Ferretto a chiedere una sigaretta ai passanti (che poi, quando gliela davi, lui era capace di dirti “Ma no, dai non importa, grazie!”), a quando si era messo a dipingere i suoi quadri nei giardinetti di via Einaudi, a quando negli ultimi tempi si era spostato in zona di via Cappuccina e Corso del Popolo e si era “perso” un po’ di più, con gli zoccoli ai piedi, una coperta sulle spalle, magro, invecchiato. Nessuno poteva rimanere indifferente di fronte a Giorgio: perché era simpatico, a suo modo, con le sue richieste stravaganti; perché quando ti guardava dritto negli occhi, i suoi, azzurri e magnetici, ti toccavano nell’animo; perché inspiegabile e misteriosa ci sembrava la condizione di strada in cui si era ritrovato a un certo punto della sua vita.
Spesso arrivavano segnalazioni su Giorgio, alla Comunità di Sant’Egidio così come alle altre realtà che si occupano delle persone senza dimora: “C’è uno che dorme per strada sui gradini di un albergo: fate qualcosa!” Fate qualcosa! Eppure, alle offerte di cibo, coperte, di andare al dormitorio o all’ospedale, la risposta era spesso spiazzante: no grazie, non mi serve. In centro a Mestre, così vicino a noi, la storia di Giorgio e la sua presenza accanto a noi ci hanno interrogato e, penso, debbano continuare a interrogarci tutti. Facciamo fatica a guardare a tanta povertà, solitudine, disperazione.
Talvolta è un “fastidio” che si vorrebbe cancellare dagli occhi. Eppure, in quest’umanità fragile riconosciamo le nostre difficoltà e fragilità: potrei essere io, potrebbe essere ciascuno di noi. In un inverno come questo, in cui sono morti in Italia troppi barboni a causa del freddo, in un tempo di pandemia, la domanda allora può essere angosciante: chi potrà aiutare? Dove sono le istituzioni? Si può fare qualcosa?
C’è da dire che molto si sta facendo a Mestre: una rete di attori istituzionali e del volontariato assicurano diversi servizi per le persone senza dimora, per dormire al coperto, mangiare un pasto caldo, lavarsi e vestirsi. Sant’Egidio è presente, insieme ad altri, in strada, soprattutto per ascoltare. Il grande nemico dei barboni è l’indifferenza: Giorgio stesso - nonostante i suoi ‘no’ - ci ha fatto capire che sono i legami a fare la differenza. Legami che sono cresciuti negli anni.
Soprattutto, ci ha mostrato il grande cuore dei mestrini: il barista che conservava i suoi pochi beni quando poteva; i clienti del supermercato che gli offrivano vestiti, scarpe, coperte e cibo; la famiglia di origine bengalese che ogni sera gli portava del cibo, l’albergatore che lo faceva entrare nella hall quando era troppo freddo; la ragazza che in chiesa pregava per lui. Sono i mestrini che avevano imparato ad accettare Giorgio e ad aiutarlo per quello che potevano, senza giudizio e senza paura, nel rispetto della sua vita e della sua volontà. Questo è il segno distintivo di una città che vuole rimanere umana.
È un grande insegnamento che possiamo trarre dal passaggio di Giorgio nelle nostre vite: stare accanto, ascoltare, accompagnare, aiutare. Questo ci è richiesto: aiutare senza giudizio, aiutare come possiamo, con pazienza, cercando con ciascuno la propria via. Alcuni possono persino decidere di abbandonare la vita di strada. Altri hanno riacquistato dignità. Tutti, con un po' di attenzione, possono essere protetti.
Alessandra Molani Comunità di Sant’Egidio
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Il suo viso era sereno, non si arrabbiava mai
Era il 1982. Piazza Ferretto era il ritrovo delle cosiddette “compagnie” e Giorgio. Mandich faceva parte della “compagnia al Duca D’Aosta”. L’appuntamento quotidiano era alle cinque del pomeriggio. Ci eravamo conosciuti il giorno in cui entrai a farne parte. Diventammo subito amici. Era un bel ragazzo, buono, generoso. La domenica andavamo tutti insieme a fare le gite in montagna, sui colli, al mare. Giorgio era l’amico indispensabile. Gli piaceva il mondo dei motori, soprattutto le auto e le moto.
Era uno dei collaudatori all’Aprilia, aveva disegnato il nuovo logo della Shell e lavorato come progettista alla Lamborghini. Amava il suo lavoro, era la sua vita. Alto e sorridente arrivava in piazza con la sua pandina rossa. Nemmeno ci stava, ma era nel suo stile ironizzare sulla proporzione tra la sua altezza e la piccola autovettura: «Svolge perfettamente le sue mansioni, è la più bella del mondo». Un giorno arrivò con una Maserati Biturbo, rossa. La guidava come un vero pilota.
Sapeva calibrare la potenza e le derapate sembravano pennellate su una tela enorme, ma volle subito rassicurarci: «È solo un capriccio, la pandina resterà sempre la mia amata, mai la venderò». Con lei andava anche a prendere la morosa. E le apriva la porta, come fosse quella la sua fuoriserie. Nel suo cuore grande c’era posto per tutti, era come se ci conoscesse nel profondo delle nostre anime. Non serviva aggiungere nulla, percepiva il tuo stato d’animo solo guardandoti negli occhi. E si accorgeva quando uno dei suoi amici era triste: «Tutto passa», diceva, «la vita non ammette lo sconforto, va vissuta fino in fondo».
Il suo viso era sempre sereno, non si arrabbiava mai. Un giorno, all’inizio dell’estate del 1990, mi telefonò: «Devo parlarti subito, fai presto». Corsi subito da lui e ci sedemmo in un bar della Piazza. Mentre mi raccontava del suo «viaggio in Africa» con il solito sorriso, capivo che in lui era successo qualcosa. Era entrato in un mondo immaginario. Gli rimanemmo accanto. Era come un fratello maggiore. Giorgio, negli ultimi anni, aveva due desideri: la patente e una rimpatriata con tutta la compagnia.
Continuava a chiedermi di aiutarlo a riottenere la patente, pur sapendo che non avrebbe più potuto riaverla. Era solo un modo per ricordare il tempo passato. Qualche mese prima della pandemia avevamo iniziato a organizzare una sorta di reunion. Un pomeriggio avevamo annotato tutti quelli che facevano parte della compagnia. Ricordava i nomi di tutti. Ricordava tutto di ognuno. Eravamo ancora nel suo cuore. Forse ora, lassù, avrà ritrovato la sua amata pandina e la serenità che cercava. Buon viaggio Giorgio. Buon viaggio fratello. I fioi del Duca non ti dimenticheranno mai. Gianluca Prestigiacomo, scrittore
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