“Suburbicon”, Usa tra perbenismo e intolleranza come 60 anni fa
Si scrive Clooney, si legge Coen. Nulla di male ad eseguire (peraltro con risultati dignitosi) lo spartito scritto da altri. “Suburbicon” si definirebbe un usato garantito: George Clooney si accomoda...
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Si scrive Clooney, si legge Coen. Nulla di male ad eseguire (peraltro con risultati dignitosi) lo spartito scritto da altri. “Suburbicon” si definirebbe un usato garantito: George Clooney si accomoda alla regia lasciandosi guidare da una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen che, anche nella trama, rievoca “Fargo” e, in generale, lo humor nero dei registi del Minnesota. Alla fine degli anni ’50 la cittadina del titolo è il posto ideale per vivere: i prati sempre tagliati, le casette a schiera ordinate, i vicini sorridenti. Ma è solo apparenza: sotto la patina a tinte pastello, l’America ammuffisce nella violenza e nell’idiozia. La famiglia Lodge è solo l’ennesima espressione di una società in decomposizione: dopo la morte della moglie Rose (Julianne Moore) durante una rapina in casa, il marito Gardner (Matt Damon) e la sorella gemella della vittima si comportano in modo strano, soprattutto agli occhi del piccolo Nicky i cui sospetti sull’omicidio della madre trovano conferma quando un investigatore assicurativo si presenta da loro. Intanto il quartiere è sconvolto dall’arrivo in città dei Meyers, una famiglia afroamericana contro la quale si scatena la rabbia dei cittadini. Dopo del Toro, anche Clooney sceglie l’ambientazione anni ’50 per denunciare le derive intolleranti e razziste dell’America di oggi, plasmando la materia coeniana in senso più politico, senza rinunciare a una ironia di fondo che se, da un lato, esorcizza la violenza finale, dall’altro non sminuisce la convinzione che la stupidità dell’uomo non possa che affogare nel sangue.
Marco Contino
Marco Contino
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