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Ministro Cartabia, vietiamo subito le chiavette USB nei Tribunali

Ministro Cartabia, vietiamo subito le chiavette USB nei Tribunali
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Sgomento, incredulità, rabbia. Sono queste le emozioni che ho provato leggendo la notizia di alcuni giorni fa relativa al processo “Eternit bis”, che si sta svolgendo a Torino, in cui l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny è accusato della morte per amianto di un ex lavoratore e di un uomo che risiedeva vicino a uno stabilimento Eternit.

La Corte di Appello avrebbe dovuto emettere la sentenza nel corso della scorsa settimana, ma tutto è stato rimandato per una motivazione che ha dell’incredibile: la chiavetta USB in cui erano contenuti gli atti è risultata inutilizzabile poiché risultava “vuota o danneggiata”. I giudici si sono detti “mortificati” ma non hanno avuto scelta quando sono andati a cercare un determinato passaggio di una consulenza tecnica (rilevante per la decisione) e non hanno trovato nulla. Per questo motivo, il processo è stato rimandato alla fine di settembre. In questi due mesi si cercherà di ricostruire gli atti di causa, ma non sarà semplice: ne manca circa il 90%. È interessante (specialmente per i non addetti ai lavori) sapere come avverrà la ricostruzione degli atti. La Corte d’Appello di Torino ha chiesto al Procuratore della repubblica di recuperare il materiale e il magistrato ha detto che si rivolgerà al collega che ha sostenuto l’accusa nel processo di primo grado per capire se può dare una mano.

Sembra incredibile, ma è tutto vero. Nell’era del cloud e dell’intelligenza artificiale, la gestione documenti di un processo – tra l’altro particolarmente importante – è effettuata attraverso una chiavetta USB, i cui limiti di affidabilità ormai dovremmo conoscere tutti.

Quanto accaduto a Torino non è solo il segno dell’arretratezza digitale del Paese, ma anche del fallimento di alcune politiche di innovazione in ambito pubblico, come quelle legate alla digitalizzazione della giustizia. Dopo oltre vent’anni di norme in materia di processo telematico, milioni di euro di investimenti, questo è il prodotto di annunci pomposi relativi a strategie e interventi legislativi che, fin qui, hanno avuto un impatto molto al di sotto delle aspettative. È davvero possibile, e tollerabile, che l’archiviazione dei documenti di un processo possa essere gestita in modo così amatoriale? Cosa è stato fatto per le competenze digitali delle parti del processo? (tutti dovremmo ormai conoscere i limiti dei dispositivi USB) Quali sono stati gli interventi in materia di cybersecurity? (c’è qualcuno che sostiene che la famigerata chiavetta potrebbe essere stata manomessa).

C’è da rimpiangere i faldoni cartacei quindi? Non esageriamo. A parte il fatto che queste cose accadevano anche prima, il tema è che le tecnologie digitali potrebbero essere utilizzate proprio per rimediare ai problemi del sistema tradizionale, rendendo più efficiente e veloce il settore giustizia. Come stanno facendo fuori dai nostri confini. In Estonia, ad esempio, grazie al progetto Court information system, in dieci anni, la durata media di un procedimento penale è scesa da 650 giorni a meno di 200. In Cina, addirittura, stanno sperimentando la possibilità di affidare la pubblica accusa a un algoritmo (un procuratore robot). Forse troppo, sicuramente pericoloso in considerazione dello stato attuale dell’intelligenza artificiale.

Insomma, mentre nel mondo si sperimenta l’uso delle tecnologie per rendere più efficiente il sistema, in Italia l’uso discutibile di sistemi inadeguati allunga i tempi dei processi. Quanto accaduto a Torino deve esser un monito anche in vista dell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il PNRR, infatti, destina circa 140 milioni di euro per il potenziamento dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali. Ma viene da chiedersi quali garanzie ci siano sul fatto che in questa occasione non siano solo “spesi i soldi”, ma raggiunti impatti in termini di riduzione dei tempi e costi della giustizia. E poi: possiamo davvero permetterci di aspettare il 2026 per vedere che qualcosa cambi? Rendere la giustizia più efficiente grazie al digitale, infatti, significa rendere migliore la nostra democrazia e attrarre investimenti. Insomma, non possiamo perdere altro tempo.

Per questo motivo c’è bisogno di scelte urgenti e simboliche, anche per evitare che quanto accaduto a Torino possa ripetersi, con conseguenze ancora più gravi per le vittime dei reati e per gli imputati.

Sarebbe quindi auspicabile che il Ministero della giustizia adottasse subito ogni atto necessario ad evitare l’uso delle chiavette USB da parte dei magistrati e degli uffici giudiziari. Sistemi più sicuri esistono già e possono essere utilizzati fin da subito. Servono solo istruzioni e formazione.