Quando si scrive di scuola bisognerebbe sempre tenere presente che si tratta di “una parola contenitore”. Nel termine scuola sono inseriti anche parole come “uguaglianza”, “giustizia”, “educazione”, “futuro” e altre ancora. Certo, la scuola non deve essere l’unico centro formativo dei giovanissimi e funziona meglio se famiglia, società e istituzioni collaborano. Ciò non toglie che la scuola debba mostrare una forte capacità di lettura del presente e trovare soluzioni almeno alle sfide che lavoro, socialità e progresso pongono nell’immediato. Se i tempi sono camaleontici nella loro capacità di cambiare, le istituzioni devono mostrare una capacità di adattamento e resilienza che, fino a oggi almeno, non c’è stata.
A scuola nel Metaverso
Lo confermano numeri che fanno riflettere: secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) il 64% dei figli di genitori non diplomati non ottiene a sua volta un diploma. Difficile sostenere quindi che la scuola sia un fiume con una portata tanto potente da sradicare il contesto culturale di una famiglia.
A completare il quadro c’è quel 23,3% (quasi uno su quattro) di giovani che non studiano né lavorano, i cosiddetti Neet che sono la parte visibile di una ferita inferta dalla famiglia, dalla scuola e dalla società in genere. La cornice che sostiene il dipinto è costruita dai laureati: in Italia sono percentualmente al di sotto della media europea e l’accesso al mondo del lavoro per molti di questi è complesso, segno che scuola e mondo del lavoro corrono su due binari che si possono intersecare meglio di quanto sta accadendo.
Il mondo del lavoro cambia
Il report Skills for Jobs dell’Ocse dice che, in Italia, c’è un esubero di lavoratori dotati di capacità fisiche e di resistenza indispensabili a chi lavora nel primario e nel secondario. Latitano invece competenze legate alla soluzione di problemi complessi e al management di alto livello. Questo vuole dire che già oggi la scuola fa fatica a seguire le necessità del mondo del lavoro e che, stando così le cose, sarà difficile preparare professionisti capaci di muoversi con disinvoltura in quegli ambiti lavorativi sempre più interessati dallo smart working, dalle competenze trasversali, dal 5G, dalla condivisione di spazi e compiti con robot o servizi automatizzati.
Cosa fare per migliorare? Come può la scuola essere più incisiva anche per garantire maggiori equilibri sociali, culturali e professionali? Va anche ricordato che la scuola non forma soltanto lavoratori ma anche e soprattutto cittadini. Avere una corretta visione di quelle che saranno le professioni del futuro non è sempre facile.
Il ministro Patrizio Bianchi spiega il punto di vista del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur).
Il Ministero, che è consapevole delle sfide future, come intende occuparsi del problema? C’è spazio e modo di inserire nei programmi scolastici, magari già nelle primarie, temi affini alle logiche computazionali o altri più inclini a preparare i cittadini di domani?
“Il Ministero è assolutamente conscio delle problematiche che sono di fronte a noi. E da tempo ha sviluppato programmi per inserire nelle scuole, anche primarie, tutti quegli strumenti per aumentare le capacità logiche, organizzative, le sensibilità che chiamiamo computazionali. E che però devono essere sviluppate lungo tutta la vita dei nostri ragazzi”.
La Dad ha diviso. Da una parte gli entusiasti, dall’altra i detrattori. Poiché molte professioni si svolgeranno in remoto, e quindi ogni professionista dovrà dare dimostrazione di autodisciplina e doti organizzative, è stata da questo punto di vista un’occasione persa? Si sarebbe potuto fare qualcosa in modo diverso? Il premier ha avuto modo di dire che la Dad crea disuguaglianze. È d’accordo o no? Perché?
“Abbiamo vissuto senza dubbio un’esperienza molto difficile in questi due anni di emergenza sanitaria. Proprio alla luce di questa consapevolezza, il governo ha voluto con forza, anche mentre molti si mostravano scettici, riaprire la scuola in presenza, perché la scuola è capacità di condividere anche emozioni e vita insieme. In questi due anni però sono state sviluppate anche molte capacità che non possono essere ridotte a quello che abbiamo chiamato Dad, ovvero la surrogazione della “lezione in presenza” a distanza. Parliamo di tutti gli strumenti digitali, dello sviluppo delle competenze non solo tecniche, ma anche di tipo gestionale, organizzativo e psicologico. Abbiamo investito per affrontare la pandemia e continueremo a farlo con il Pnrr, che prevede risorse specifiche sul digitale, con l’obiettivo di aumentare i nostri linguaggi e i nostri strumenti di comunicazione. Sono convinto anche io, come il Presidente Draghi, che la Dad, pur necessaria, abbia esasperato delle disuguaglianze già presenti nel nostro Paese. Ma è proprio avere superato questa fase di emergenza, avere investito e continuare a investire in capacità, competenze e strumenti che permette di andare oltre quella visione emergenziale e avvicinarci a un uso del digitale che non solo non crei disuguaglianze ma dia più opportunità a tutti”.
Onestamente occorre smentire quanti son convinti che la scuola debba insegnare quelle materie che serviranno ai giovani quando saranno lavoratori. Non si può sapere quali capacità serviranno fra dieci anni. Le competenze però sono tutt’altra cosa: modi di pensare, capacità di analisi, progettazione di soluzioni. Qual è la sua opinione?
“La nostra scuola oggi, e ancor di più nel progetto di scuola su cui stiamo lavorando, insegna la capacità di vivere insieme come crescita personale e come investimento collettivo sul domani. Nessuno vuole predeterminare i lavori del futuro: è una visione che risale al fordismo, dove tutte le attività erano determinate, si segmentavano le funzioni e si sostituivano le attività proprie della persona con attività ripetitive. Noi siamo convinti, invece, che si debba andare verso una modalità in cui il lavoro recuperi creatività, capacità di condivisione, sulla base di quel principio antico, ma sempre valido, per cui l’efficienza non è il risultato di specializzazione delle singole persone, ma di complementarità fra di loro. In questo momento dobbiamo ritrovare le condizioni per ricostruire questa complementarità, la capacità di lavorare insieme e disegnare insieme percorsi e investimenti su quelle competenze di metodo, le cosiddette ‘soft skills’, che ci permettono di affrontare il cambiamento senza paura”.
Uomo e macchina condivideranno spazi di lavoro e di attività, sembra necessaria una formazione, se non persino urgente. Come intervenire?
“Veniamo da una lunga tradizione in cui il rapporto uomo-macchina era un rapporto progressivamente di sudditanza. Le macchine oggi sono cambiate molto. Si parla di intelligenza artificiale, di supercalcolo, di big data e di strumenti in grado di sostenere le capacità creative delle persone, di gestire grandi complessi di attività. Per questo bisogna supportare competenze personali e collettive in grado di affrontare questa straordinaria trasformazione tecnologica. Su questo però bisogna essere chiari. Ci sono livelli diversi. Un primo è quello di dare a tutti le opportunità legate alla conoscenza delle tecnologie, al metodo con cui affrontare il cambiamento, alle competenze di vita comune. Dopo di che bisogna permettere a ragazze e ragazzi, sulla base di una forte capacità di orientamento, che è una delle riforme fondamentali del PNRR, di poter intraprendere dei percorsi che poi si misureranno, nei diversi contesti, con gli sviluppi tecnologici del tempo in cui si vivrà”.
Tra i giovani che lasciano la scuola anzitempo, si registrano tassi di disoccupazione a doppia cifra. È un problema reale e tangibile. Quali riflessioni vanno fatte? È sintomo di una scuola che non risponde ai temi attuali? Come interpreta il fenomeno dei neet?
“Il primo problema è quello della dispersione scolastica. La sua affermazione risponde al vero: coloro che non concludono per vari motivi un percorso di studi sono a rischio molto più elevato di disoccupazione o sottoccupazione. Per questo nel PNRR abbiamo inserito innanzitutto un piano da 1,5 miliardi contro i divari territoriali per contrastare la dispersione scolastica con attività di mentoring e tutoraggio e, inoltre, abbiamo previsto la riforma dell’orientamento, che secondo me è cruciale. Orientamento vuol dire accompagnare studentesse e studenti nell’individuazione dei loro percorsi di studio, fin dalle Secondarie di primo grado. Questo significa aiutarli non soltanto a perseguire studi coerenti con le loro attese e le loro ambizioni personali, ma anche con un ragionevole grado di possibilità di essere accompagnati nel proprio futuro lavorativo. Per farlo vogliamo costruire una scuola che aiuti studentesse e studenti a diventare cittadini consapevoli, responsabili, ma che aumenti l’offerta didattica e sia in grado di far sviluppare sin da piccoli le competenze necessarie ad affrontare cambiamenti e trasformazioni, potenziando le conoscenze nell’area Stem, le capacità legate al coding, le capacità computazionali”.
Secondo lei la scuola va rinnovata, migliorata o necessita solo di pochi accorgimenti?
“La scuola ha mostrato, in particolare durante questa fase pandemica, di essere davvero il centro e il cuore pulsante di una comunità. La più grande infrastruttura nazionale. Per questo con il Pnrr destiniamo ben 17,59 miliardi all’istruzione, da investire sia negli edifici, con risorse per asili e scuole nuove, sia nel potenziamento delle competenze. Con le sei riforme che realizzeremo nel 2022 nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza disegneremo una scuola nuova. Stiamo parlando di riforma degli Istituti tecnici e professionali, del sistema Its, dell’orientamento, di un nuovo sistema di reclutamento dei nostri docenti, della riorganizzazione del sistema scolastico e della scuola di alta formazione continua del personale. Concluso questo processo, potremo dare alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi un sistema nuovo, che risponda ai loro bisogni e alle loro necessità”.
Un’ultima riflessione
Dalle parole del ministro Bianchi trapela la convinzione che la scuola debba essere rinnovata e questo comporta che tutti gli attori coinvolti acquisiscano una consapevolezza che faciliti i continui cambiamenti a cui la società andrà in contro nei prossimi anni. La scuola italiana non è vecchia perché ha il corpo docenti più anziano d’Europa, rischia di diventare vecchia se non apre entrambe le braccia al cambiamento.