«Dai campi in oratorio nella mia Venezia a sotto canestro con Michael Jordan»
Giocatore e arbitro, i 60 anni di Stefano Cazzaro nella pallacanestro. I ricordi di una carriera ricca di soddisfazioni in Italia e all’estero
Michele Contessa
VENEZIA.
Sessant’anni con il pallone da basket in mano, prima come giocatore, poi come arbitro, infine ricoprendo vari ruoli negli organismi arbitrali italiani e internazionali. La pallacanestro era nel destino di Stefano Cazzaro, cresciuto nell’aurea rosa di mamma Rina Zane, splendida protagonista dello scudetto della Reyer Venezia nel 1946, proseguita da ragazzo prima alla Laetitia, una delle storiche società del centro storico veneziano, e poi alla Reyer. Arbitro quasi per caso, un fischietto “gentile” e preciso sul parquet, mai sopra le righe, maturato all’ombra di Paolo Zanon e all’interno di un gruppo di ragazzi che diede vita alla “scuola veneziana” di arbitri che si impose in Italia e all’estero. Una carriera che ha consentito e che consente a Stefano Cazzaro di viaggiare per il mondo, di vivere da vicino l’esordio del Dream Team di Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson, una carriera che continua ancora come commissario Fiba.
Stefano Cazzaro, il basket era nel dna?
«Beh sì, non poteva essere altrimenti con la mamma ex giocatrice della Reyer tricolore, poi con papà all’interno della Laetitia, in un contesto veneziano dell’epoca dove si trovava un campo da basket all’aperto quasi in ogni oratorio, quando nascevano squadre ogni anno. Un basket a dimensione umana, che portava a fraternizzare e a creare amicizie, che rimangono intatte anche oggi».
Giocatore, giovane dirigente, alla fine arbitro: come è andata?
«Ero troppo giovane per partecipare al corso di istruttore, ho così frequentato quello per gli arbitri: è iniziata così. Ed è stata una carriera molto rapida perché all’inizio del 1970 mi sono ritrovato sul campo delle Quattro Fontane, al Lido di Venezia, a dirigere la partita tra Lambretta e Julia. Tre anni dopo ero in Serie D, ancora due stagioni ed ero già in Serie C».
Quale è stato il momento più complicato?
«Il passaggio in Serie B, ci impiegai 5 anni, doveva avvenire prima, poi scelte geopolitiche rinviarono la promozione che è arrivata nel 1977».
La prima partita diretta in Serie A?
«La ricordo come fosse ieri. Ebbi la fortuna di avere Paolo Zanon come mio collega, è stato un grandissimo amico e un ottimo arbitro, ho imparato molto da lui che ritengo il mio maestro. Fummo designati per la partita tra Italcable Perugia e Rapident Livorno di Serie A/2. Era il 3 ottobre 1982».
Quale è stata la svolta internazionale della carriera?
«Sicuramente il torneo dell’Acropoli nel 1988, ero ancora molto giovane, ma feci un’ottima impressione a Lubo Kotleba, tanto che nel 1991 diressi la mia prima finale, quella della Coppa Saporta della Fiba tra Paok Salonicco e Saragozza. Ero diventato arbitro internazionale 5 anni prima, dopo aver seguito i corsi a Pola nel 1985 e ad Atene nel 1986».
Come è stato arbitrare il Dream Team a Barcellona nell’estate del 1992?
«Il battesimo lo avevo avuto qualche mese prima perché ero stato selezionato per il torneo preolimpico di Portland. Era la prima uscita ufficiale del Dream Team. Si conosceva il mito dei giocatori di Nba attraverso le notizie di stampa, ma non c’erano tante notizie in televisione, video e social come adesso. Sapevamo del valore immenso di quei giocatori a livello individuale, vederli giocare dal vivo e avere la fortuna di arbitrarli è stata una bellissima emozione. Il ricordo più singolare che ho, è vedere gli avversari che arrivavano con le macchine fotografiche per immortale gli Stati Uniti. Se devo essere sincero, dopo aver fatto il torneo preolimpico, non credevo di essere designato anche per le Olimpiadi in Spagna, pensavo venisse scelto Paolo Zanon. Di solito l’Olimpiade è l’atto finale di una carriera internazionale, per me è stata l’inizio».
Conserva una foto con Michael Jordan?
«Una delle tante che ho nel mio album dei ricordi, ma quella con il fuoriclasse dei Chicago Bulls ha una storia particolare perché alcuni anni dopo, grazie a un’amica arbitro in Wnba, sono anche riuscito a farmela autografare. Sapevo che prima o poi avrei fischiato un fallo a favore di uno di quei campioni, mi misi d’accordo con una fotografa sotto canestro di scattare il momento mentre consegnavo il pallone. Toccò a Jordan».
Veneziano del centro storico, che ricordi ha di Padova e Treviso?
«Per tanti anni, a causa di una norma, gli arbitri non potevano dirigere le squadre della propria regione, poi anche sotto la spinta di Ettore Messina, questo “divieto” cadde e ho potuto dirigere spesso la Benetton. Ero stato designato per la finale di Coppa Italia, ma non potei arbitrarla perché si era qualificata Verona. Di Padova ho ricordi giovanili, non come arbitro. Ero ancora minorenne, il Petrarca giocava in alternanza con la Reyer in Serie A e, quando Venezia era in trasferta, Gigi Marsico, amico di mio papà, mi accompagnava ai Tre Pini a vedere la squadra di Doug Moe».
Una chiusura in grande stile della carriera?
«Ho terminato in Italia con la serie scudetto tra Siena e Fortitudo, la norma dei limiti di età non mi consentiva di arbitrare più in campionato, mentre in Europa ho vissuto un’altra stagione di grandi soddisfazioni tanto da terminare con la finale di Eurolega a Mosca tra Maccabi e Vitoria». —
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