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Per non sbagliare la diagnosi: tecnologie e il dialogo con il paziente

Per non sbagliare la diagnosi: tecnologie e il dialogo con il paziente
Negli Stati Uniti almeno 12 milioni di persone all'anno fanno i conti con errori diagnostici. Secondo la Sidm, le complicazioni relative a diagnosi errate provocherebbero tra i 40 e gli 80 mila morti ogni anno
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È una parte fondamentale del viaggio del paziente attraverso la sua malattia. In senso letterale: è alle fondamenta di tutto il percorso terapeutico, e rappresenta il primo passo verso la sperata guarigione. Se è sbagliata la diagnosi, insomma, il malato rischia di non partire mai per la meta desiderata, o di prendere la strada sbagliata.

Eppure, come ricordano due lunghi commenti apparsi su Jama la diagnosi è spesso considerata la Cenerentola del processo di cura. "Nonostante il suo ruolo essenziale nella clinica, e pur essendo un prerequisito per una assistenza medica efficace e di alta qualità, il momento della diagnosi è trascurato: poco studiato e poco misurato, e anche poco valorizzato dal punto di vista economico", scrivono tre ricercatori della Gordon and Betty Moore Foundation di Palo Alto, California, guidati da Harvey Fineberg. Il risultato è che, secondo un report del British Medical Journal Quality and Safety (apparso già nel 2014), nei soli Stati Uniti sarebbero almeno 12 milioni di persone ogni anno a fare i conti con errori diagnostici, di cui la metà potenzialmente dannosi.

Secondo la Sidm - Società americana per il miglioramento della diagnosi in medicina - le complicazioni relative a diagnosi errate provocherebbero tra i 40 e gli 80 mila morti ogni anno. In Italia le stime sono assai confuse. Secondo le associazioni di avvocati specializzati in cause e risarcimenti del paziente, gli errori diagnostici rappresenterebbero circa il 20% degli errori in medicina, con circa 30 mila denunce ogni anno contro medici e strutture sanitarie, mentre, secondo uno studio italiano del 2013, 32 mila pazienti ogni anno subiscono danni evitabili.

Per questo, proseguono Fineberg e colleghi, data la sua profonda influenza sui risultati dei pazienti, la diagnosi meriterebbe una maggiore attenzione come campo di studio, e dovrebbe rappresentare una delle priorità per migliorare la qualità dell'assistenza. Il processo diagnostico dovrebbe insomma essere sicuro, efficace, centrato sul paziente, tempestivo, efficiente ed equo. Un percorso per niente facile.

"La diagnosi è un passaggio che viene un po' dato per scontato, soprattutto dai pazienti - ammette Dario Manfellotto, Presidente della Fadoi, la Società scientifica di Medicina interna - e invece il processo diagnostico è complicato e lungo. A volte, gli indizi che scorgiamo ci possono portare fuori strada e dobbiamo ricominciare da capo finché non abbiamo capito tutta la storia, cioè la malattia di quel paziente. Purtroppo, la medicina viene considerata alla portata di tutti: secondo molte persone basta andare su Internet, inserire i sintomi (come febbre, dolori articolari, manifestazioni cutanee) e aspettare il responso dell'algoritmo. Magari fosse così semplice!".

Certo, dalla percussione sulle spalle al web, gli strumenti di diagnosi hanno fatto progressi. "Pensiamo all'evoluzione del processo diagnostico - continua Manfellotto - considerando il passaggio dalla medicina esterna alla medicina interna, nel Settecento". Allora - basta guardare i dipinti dell'epoca - il medico osservava il paziente da lontano, quasi senza toccarlo: le malattie erano prevalentemente infettive (tifo, vaiolo, lue, ecc.) e per capire di cosa si trattasse ci si limitava a osservare i segni esteriori (l'esantema, le pustole, le papule...). Al più si prendeva il polso.

Con Giovan Battista Morgagni, il fondatore dell'anatomia patologica, si comincia a guardare "dentro" i pazienti deceduti, con una accurata disamina degli organi interni. Ma, sottolinea Manfellotto, l'autopsia avviene alla fine del viaggio del paziente. Dunque, serviva capire prima cosa stesse accadendo nel corpo del malato. "Così, con il medico austriaco Joseph Leopold Auenbrugger nacque la percussione. Poi arrivò lo stetoscopio, poi il fonendoscopio, poi il termometro, e in Italia lo sfigmomanometro, strumento per misurare la pressione. Oggi abbiamo la radiografia, l'ecografia, la Tac, per non parlare della genetica. Tutti strumenti potentissimi, che però non devono fare dimenticare la capacità di interpretare i sintomi e i segni".

Già, perché questo è il rischio: la prevalenza della tecnologia sulla clinica. "La tecnologia deve, invece, essere al servizio della valutazione clinica del medico. A volte - continua Manfellotto - i pazienti si presentano con una Tac autoprescritta, e pretendono di ricevere una diagnosi immediata così, su due piedi. In realtà la diagnosi è un percorso che comincia con un colloquio approfondito (l'anamnesi) con la persona con malattia e semmai - ma non necessariamente - finisce con la richiesta di un esame specifico. Io, in quanto medico, devo sapere tutto di quel paziente. Quanti anni ha, dove lavora, quali abitudini alimentari segue, che tipo di vita sociale conduce. E spesso, trovandomi davanti a più malattie concomitanti, devo saper fare una gerarchia: qual è quella più urgente da trattare? Questo porta via tempo. Non basta guardare il referto di una Tac, per quanto accurato, per avere la risposta che cerchiamo. Altrimenti ci allontaniamo dal paziente".

Che nel processo di diagnosi la tecnologia non possa sostituire la clinica ma solo affiancarla è convinto anche Vittorio Miele, presidente della Società italiana di radiologia medica interventistica, e Direttore del Dipartimento dei servizi Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze. Ma gli avanzamenti tecnologici pongono comunque grandi sfide.

"Una Tac - dice Miele - è un'immagine su scala di grigi, a seconda dell'attenuazione che i raggi ricevono nel passare attraverso il corpo, così che il segnale viene letto in misura maggiore o minore da un rilevatore. E ogni immagine è a sua volta composta da un numero infinito di dati, relativi per esempio alla velocità con cui cambia la densità tra pixel adiacenti, o a quanto sia omogenea la distribuzione delle densità all'interno di un nodulo. Questi dati possono essere utilizzati per caratterizzare una neoplasia nell'ambito della medicina di precisione, e capire se un nodulo polmonare, per esempio, risponderà o meno a una data terapia".

È quella che chiamiamo radiomica. Che però si spinge ancora più avanti quando entra in campo l'Intelligenza artificiale. "Questa ci può aiutare ad analizzare la futura evoluzione di una malattia, non solo in campo oncologico ma anche cardiovascolare e persino in ambito Covid: grazie agli algoritmi possiamo interpretare meglio quello che in passato vedevamo solo con i nostri occhi", continua Miele. Certo, i medici più in là con gli anni hanno forse una maggiore difficoltà a orientarsi tra le novità, e a lavorare gomito a gomito con gli ingegneri, i fisici e gli informatici, cioè quelle figure professionali che in passato aiutavano i medici a scegliere la macchina più adatta alle esigenze del centro di cura, e che oggi, invece, collaborano a pieno titolo alla formulazione della diagnosi.

Sarà dunque un algoritmo a sostituire la semeiotica, l'antica arte dell'interpretare i segni di malattia? "Non vedo questo rischio -, aggiunge Miele: - Il medico, e il radiologo in particolare, dovrà essere sempre più in grado di padroneggiare le tecnologie digitali. Ma ci sarà sempre bisogno di un controllo umano, sia per validare i risultati ottenuti con l'Intelligenza artificiale, sia per trasferire questi risultati al clinico e poi al paziente".

Molti però ritengono che la tecnologia ridurrà i tempi di diagnosi, consentendo al medico di concentrarsi su altro, magari sulla comunicazione al paziente. Sarà vero? "Le nuove attrezzature hanno tempi di acquisizione ridotti, certo. Vent'anni fa una Tac durava 15 minuti, oggi ci vogliono appena 15 secondi. Ma il tempo complessivo non è cambiato: parlare con il paziente, farlo spogliare, trovargli la vena, rassicurarlo, rivestirlo... è sempre lo stesso. Gli esami sono eseguiti su persone, non su fantocci. E il tempo-macchina influisce poco sulla durata del percorso diagnostico".

Per una buona diagnosi, insomma, non basta una super-macchina. C'è bisogno di competenza e di tempo. Perché la tecnologia va saputa interpretare. E gli strumenti sono un punto di arrivo, non di partenza. "La diagnosi - concludono su Jama Amrapali Maitra della Harvard Medical School e Abraham Verghese della Stanford University - dovrà essere migliore, più veloce, meno costosa, più precisa, ma deve anche diventare un'arte in grado di accogliere la molteplicità, l'esperienza soggettiva e fare i conti con l'etica. Deve lasciare spazio al non sapere. Deve essere centrata sulla persona. Solo così i medici possono recuperare il senso della loro professione: come diceva Louis Pasteur, "guarire a volte, alleviare spesso, confortare sempre"".

Non mi serve un algoritmo, voglio un dottore

La tecnologia aiuta a vedere cose che prima non potevano essere viste. Ma è solo uno strumento, un supporto alla diagnosi. Se diventa preponderante vuol dire che abbiamo un problema. Ne parliamo con Umberto Nocco, presidente dell'Associazione italiana degli ingegneri clinici (Aiic).

A cosa serve la tecnologia in medicina?
"La tecnologia presenta vantaggi in diversi ambiti, sia nel percorso terapeutico che in quello diagnostico. Ma in quest'ultimo è più facile pensare che la tecnologia possa vivere da sola, come se il paziente non ci fosse. Si acquisisce il dato di laboratorio o l'immagine radiologica e poi qualcuno li interpreterà. In realtà, la tecnologia deve essere sì di aiuto a chi deve processare queste informazioni, ma non potrà mai essere totalmente sostitutiva, Essa fornisce informazioni aggiuntive che umanamente non riusciremmo ad acquisire, ci dà la possibilità di analizzarle in modo rapido e con basso margine di errore. Ma senza il medico non andiamo da nessuna parte".

Quali sono le direzioni future?
"In primo luogo, l'uso in remoto: quella della telemedicina, del teleconsulto, del monitoraggio a distanza è una strada tracciata, e il tema ormai è solo quello di introdurre queste tecnologie all'interno di un ospedale e di gestire le ricadute di tipo organizzativo. In secondo luogo, la portabilità degli strumenti. Che è in sostanza l'altra faccia della stessa medaglia. Se riusciamo a diagnosticare un paziente senza farlo uscire di casa, in remoto o recandoci da lui con i nostri strumenti portatili, è un bene per tutti".

Intelligenza artificiale: avremo presto una delega totale all'algoritmo da parte del medico? C'è il rischio di una perdita di competenze?
"In teoria il rischio di delega alla tecnologia esiste anche in altri ambiti, non solo in medicina. L'importante è non porsi in modo acritico rispetto ai dati prodotti da un apparecchio. Nel caso dell'Intelligenza artificiale non è tutt'oro quel che luccica, ci sono tante variabili che possono indurre in errore, basti pensare ai veicoli a guida autonoma. Però non dobbiamo dimenticare i vantaggi dati dal poter elaborare una grande quantità di dati in pochissimo tempo. L'esempio più evidente è il sequenziamento del genoma: milioni di dati che a mano non si potrebbero analizzare in modo compiuto. Non a caso questo ambito ha avuto una impennata legata alla disponibilità dei sistemi di calcolo. Il punto da tenere a mente è che queste soluzioni sono uno strumento valido che non sostituiscono ma cambiano l'approccio, le competenze e il modo di lavorare degli esseri umani".

Le regole

Secondo la National Academy of Medicine degli Stati Uniti, una diagnosi deve avere sei caratteristiche ineludibili:

Sicura
La sicurezza nella diagnosi può essere compromessa da 4 tipi di errori: errori di strategia (mancata scelta degli esami diagnostici necessari); errori nell'esecuzione (danno provocato nel corso dell'esame); errori di interpretazione delle informazioni diagnostiche; ed errori di comunicazione.

Efficace
L'efficacia diagnostica comporta l'acquisizione e l'interpretazione obiettiva delle evidenze disponibili per la comprensione delle condizioni del paziente. Al centro della valutazione può esserci il medico che formula la diagnosi, il processo diagnostico o un particolare dispositivo, procedura o esame diagnostico.

Personalizzata
Protagonista principale di ogni incontro clinico deve essere il paziente, non il medico. L'eccellenza nella diagnosi richiede una grande attenzione alle priorità del paziente, come benessere, convenienza e costi. Una comunicazione efficace con i pazienti comporta spiegazioni adeguate al loro livello di comprensione e adattate ai loro bisogni e desideri.

Tempestiva
Nella diagnosi, il tempismo a volte può fare la differenza tra la vita e la morte. In generale, la velocità della diagnosi deve essere maggiore della velocità di progressione di una malattia. Per condizioni acute, come sepsi o ictus, la finestra di diagnosi tempestiva viene misurata in minuti o ore; per condizioni subacute, come il cancro, la diagnosi tempestiva viene spesso misurata in settimane o mesi.

Efficiente
Per raggiungere l'efficienza diagnostica è necessario selezionare il tipo e la sequenza di esami per poter fornire le risposte necessarie nel modo più efficiente in termini di tempo e risorse. Test diagnostici inappropriati, ridondanti e di basso valore sono uno spreco.

Equa
I progressi nella diagnosi sono incompleti finché non hanno raggiunto tutti i pazienti che ne trarranno beneficio. In contesti caratterizzati da risorse limitate, gli strumenti diagnostici possono essere implementati a vantaggio di alcuni rispetto ad altri. Il raggiungimento dell'equità nell'assistenza sanitaria si applica tanto alla diagnosi quanto alla prevenzione o al trattamento.