Coronavirus, ecco perché i bambini sono meno contagiosi degli adulti
di Claudia Carucci
Studio pubblicato su "Nature". Nelle scuole elementari e negli asili nido i focolai sono rari. Solo il personale è a rischio
Aggiornato alle 3 minuti di lettura
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature dimostra che, in base ai dati raccolti in varie parti del mondo, le scuole non sono "punti caldi" per le infezioni da coronavirus.
Nonostante i timori di governi e autorità scientifiche, è emerso che le infezioni da COVID-19 non sono aumentate dopo la riapertura di scuole e asili nido a inizio anno scolastico. Anche nel caso in cui si verifichino focolai, questi generano un numero esiguo di contagi. Il che non significa che i bambini non si ammalino. I piccoli possono contrarre il virus e anche liberare particelle virali; i più grandi poi, hanno maggiori probabilità di trasmetterlo. Come interpretare questi dati?
“Le scuole e gli asili nido sono teoricamente un ambiente ideale per la trasmissione del coronavirus: si tratta di luoghi dove gruppi consistenti di individui si riuniscono al chiuso e per un tempo prolungato – spiega Walter Haas, epidemiologo di malattie infettive presso il Robert Koch Institute di Berlino. - Eppure, a livello globale, le infezioni da COVID-19 sono ancora molto più basse tra i bambini che tra gli adulti”.
Certamente le scuole più “sicure” o comunque meno esposte ai pericoli sono quelle dei comuni nei quali il numero di contagi è già basso di suo. Ma anche nei luoghi in cui le infezioni a livello generale risultano in aumento, i focolai nelle scuole restano rari.
Italia, Australia, Gran Bretagna e Usa a confronto
Più di 65mila scuole in Italia hanno riaperto a settembre e soltanto 1.212 istituti hanno registrato casi di contagio nell'arco delle 4 settimane. Nel 93% dei casi, è stato segnalato un solo contagio e per quanto concerne le scuole superiori, soltanto in un comune ci sono stati oltre 10 studenti infetti.
Anche nello stato di Victoria, in Australia, dove a luglio si è verificata una seconda ondata di infezioni da COVID-19, non si sono avute epidemie legate a scuole e asili nido. Due terzi delle 1.635 infezioni da COVID-19 negli istituti, erano limitati a un singolo caso e il 91% riguardava meno di 10 persone.
Diversa la situazione negli Stati Uniti, dove, alla riapertura delle scuole (agosto), la percentuale di infezioni nei bambini ha continuato a salire, come ha evidenziato Ashlesha Kaushik, pediatra di Sioux City, Iowa, e portavoce dell'American Academy di pediatria. Non è chiaro quanto i focolai che hanno origine nelle scuole possano contribuire alla trasmissione del virus nella comunità. Questo perché ci sono anche altri fattori determinanti, tra cui l'allentamento delle restrizioni su attività commerciali e riunioni. “Di sicuro anche l'aumento dei test nelle fasi successive alla prima ondata della pandemia, ha inevitabilmente fatto crescere i numeri complessivi” precisa la dottoressa Kaushik.
E vediamo la Gran Bretagna. I dati sulla diffusione del virus a livello scolastico in Inghilterra, dimostrano che gli adulti sono stati spesso i primi a essere contagiati. Delle 30 “epidemie scolastiche” segnalate a giugno, la maggior parte riguardava il personale all’interno degli istituti; soltanto due i casi fra gli studenti.
I ricercatori ipotizzano che uno dei motivi per i quali le scuole non sono diventate punti caldi del COVID-19 sia che i bambini, specialmente quelli sotto i 12/14 anni, sono meno suscettibili alle infezioni rispetto agli adulti. “Anche quando “contagiati” i piccoli, anche quelli fra gli 0 e i 5 anni, hanno meno probabilità di trasmettere il virus” spiega Haas.
In un’analisi svolta in Germania, il team di Haas ha scoperto che i contagi erano meno comuni nei bambini di età compresa tra 6 e 10 anni rispetto ai ragazzi più grandi e agli adulti del personale operativo nelle scuole.
"Il potenziale di trasmissione aumenta con l'età e gli adolescenti hanno la stessa probabilità di trasmettere il virus come gli adulti – sottolinea lo studioso -. Ragazzi e insegnanti dovrebbero essere al centro delle misure di mitigazione, indossare mascherine o tornare alle lezioni online quando la trasmissione nella comunità è alta”.
Anche negli Stati Uniti, il tasso di infezione è due volte più alto nei bambini di età compresa tra 12 e 17 anni rispetto a quelli tra i 5 e gli 11 anni. In base ai dati raccolti dall'economista Emily Oster presso la Brown University di Providence, Rhode Island, su 200mila studenti delle scuole di 47 stati, l'incidenza è stata più alta fra i giovani delle scuole superiori, seguita da quelli delle medie e infine delle elementari.
Il motivo effettivo per il quale i bambini più piccoli siano meno contagiosi dei ragazzi più grandi non è del tutto chiaro per gli scienziati. “Una possibilità – sostiene Haas - è che, avendo polmoni più piccoli, siano meno predisposti a proiettare aerosol infettivi verso gli adulti. Nei casi di tubercolosi questo può accadere ma le infezioni da SARS-CoV-2 sono diverse, perché il virus infetta le vie aeree superiori”.