Ex direttore dei Musei Civici di Treviso debutta all’alba dei 79 anni come scrittore
Eugenio Manzato festeggia l’uscita del suo primo romanzo: «Racconto l’ultima notte di un medico massone»
Marina Grasso
Compirà 79 anni tra una settimana, ma i suoi occhi chiari si illuminano come quelli di un bimbo mentre stringe tra le mani la copia fresca di stampa di “L’ultima notte del dottor Romani”, il suo primo romanzo. Eppure di libri ne ha scritti moltissimi, Eugenio Manzato, storico dell’arte che debutta nella narrativa con un romanzo storico.
Manzato cambia lavoro?
«In un certo senso sì, è mi sento un privilegiato. Perché lavorare è il modo migliore per continuare a imparare. Però va detto che ho cominciato a coltivare la passione per la scrittura fin da bambino e negli anni di liceo e di università ho scritto alcuni racconti e ho iniziato un romanzo. D’altronde sono nato e cresciuto in un panorama umano e storico ricchissimo: nel secondo dopoguerra la mia famiglia abitava in una strada, a Quinto di Treviso, note come “cae sigagna”, dove eravamo tutti un po’ zingari e tutti più o meno poveri, ma dove la condivisione era la norma. Così ho cominciato presto a registrare momenti, persone e gesti che ora ho una gran voglia di raccontare. E mi sento realmente euforico nel farlo».
Significa che dopo un romanzo storico di 650 pagine sta già pensando ad altri libri?
«Sì, sicuramente. Scrivere è quel che voglio fare negli anni che mi restano da vivere. Ora sono alle prese con un libro di racconti intitolato “Campagna veneta”, titolo ispirato dal genere creato da Guglielmo Ciardi. Una campagna che nel frattempo è profondamente cambiata, ma gli elementi naturali sono più o meno gli stessi. E guardandola attentamente oggi avendo ben in mente i quadri di Ciardi mi sono accorto che anche nella sua pittura c’è un punto di vista personale, verosimile ma non vero, proprio come avviene con la narrativa».
Riecco lo storico dell’arte, quindi. I lettori troveranno molta arte anche in “L’ultima notte del dottor Romani”?
«Assolutamente no. È un romanzo storico nel quale sono stato ben attento a non inserire riferimenti all’arte. La storia si sviluppa intorno alle vicende dell’intensa vita di Antonio Romani, medico e massone, che lui rievoca la notte del 12 maggio 1797, mentre attende l’alba in cui sarà giustiziato per cospirazione contro il governo della Serenissima, senza sapere che quella sarà anche l’ultima notte della Repubblica di Venezia pur avendo ben chiaro che “fra qualche giorno il piccolo generale varcherà la laguna e pianterà il tricolore in piazza San Marco”, come afferma nelle sue ultimissime riflessioni. Ma accanto a quest’uomo colto, intelligente e illuminato non scorre solo la grande storia bensì tante piccole e grandi storie quotidiane del suo tempo, della sua famiglia ed anche dei “suoi” luoghi, e dei suoi viaggi, dalle piccole curiosità quotidiane alle nuove idee che turbavano e trasformavano le comunità nella seconda metà del Settecento».
È uomo fatalmente nato dov’è nato Eugenio Manzato, a Quinto di Treviso.
«Sì, l’ho immaginato bambino nella frazione di Santa Cristina, in una casa precisa, la “Casa dei Romani” che indicava la provenienza non meglio precisata dei suoi genitori, transfughi dalla Toscana e sempre “foresti” in paese. E ho scelto di non dare cronologia ai suoi ricordi di bambino, consapevole che per secoli la vita è stata la stessa per tutti, in campagna. Ma quando comincia a studiare tutto cambia, e con il suo senso civico convince l’illuminato parroco a far nascere in parrocchia una scuola che segnerà l’emancipazione dei suoi coetanei in epoca pienamente illuminista. Ed è ancora quasi per indole, che poi si trova a condividere i principi della Rivoluzione Francese, a dissertare a lungo su “libertè, egalitè e fraternitè” con precisazioni linguistiche e visioni ancora vivamente attuali».

Si tratta, quindi, di una narrazione complessa, pur se chiarissima e appassionante. Quanto ha influito in queste qualità di questo romanzo la sua abilità nel divulgare la storia dell’arte?
«Rodolfo Pallucchini, uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento di cui sono stato allievo, affermava che gli storici dell’arte ricostruiscono percorsi, quindi sono abituato alla narrazione e a considerare che il contenuto è certo importante, ma è rilevante come viene raccontato. Come neoscrittore, potrei dire di essermi allenato a lungo con la storia dell’arte. E adesso desidero raccontare storie di uomini con la stessa cura nell’esposizione e che ho usato per dipanare gli intrecci contenuti nelle opere d’arte e ricostruirne la storia. Ma qualsiasi storia si voglia raccontare, il labor limae di Orazio resta sempre fondamentale per raccontarla al meglio, anche se abbiamo un po’ perso la passione e la dedizione per la meticolosa scelta delle parole».
In attesa dell’uscita in libreria, non riveliamo niente di più su questa complessa storia, nella quale però s’intravede la possibilità di un sequel.
«Sto già lavorando anche a quello, in realtà. Mi sono affezionato a questo personaggio con il quale ho vissuto per sei anni tra ricerche storiche, approfondimenti e tante limature, appunto. Ma sono anche stato incoraggiato da alcuni amici che hanno letto il romanzo in anteprima, tra i quali Gianmario Villalta, poeta e scrittore poco incline alla piaggeria che restituendomi la prima stesura mi ha definito “l’Ippolito Nievo del terzo millennio”. Complimento forse azzardato, ma che ho accolto con grande gioia».
Villalta l’ha anche invitata a presentare “L’ultima notte del dottor Romani” a Pordenonelegge. Un altro debutto importante.
«Sì, lo presenterò per la prima volta al pubblico proprio in questo importante festival letterario, il 15 settembre a Palazzo Montereale Mantica».
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