Due ruote di libertà, passione e contraddizioni. Così la ciclosofia ci cambia (in meglio) la vita
La giornata Onu delle due ruote. Prima di destra, poi di sinistra, poi di tutti. Prima moderna, poi antimoderna. Prima povera, poi lussuosa. Ma sempre in corsa
Nicolò Menniti-Ippolito
La bici è un simbolo di libertà
Tutti in strada oggi per festeggiare la quinta giornata mondiale della bicicletta, deliberata dall’Onu nel 2018 per affermare tutto il bene possibile di un mezzo di trasporto che alimenta il benessere del pianeta e di chi la usa.
Eppure è difficile immaginare un oggetto sociologicamente più contraddittorio della bicicletta. È stata per 60 anni un simbolo ardito di estrema modernità, per poi diventare il suo contrario, l’emblema della antimodernità. Sembrava finita negli anni Sessanta del Novecento ed è risorta più forte di prima già negli anni Ottanta. È nata politicamente di destra, ma poi è diventata la bandiera della sinistra, salvo ora – direbbe Gaber – tornare di destra nella sua versione elettrica ultrasofisticata.

La questione meridionale
È un mezzo povero, adatto a climi temperati, ma chi la usa di più sono i paesi ricchi del Nord: la Danimarca ha raggiunto il pareggio tra biciclette e abitanti. Mentre in Italia – secondo lo storico Stefano Pivato – esiste una questione meridionale anche ciclistica, perché da sempre c’è uno squilibrio nel suo uso tra nord e sud causato dalla persistenza dell’originaria diffidenza meridionale verso il moderno.
Insomma, non tutto è stato lineare da quando, più o meno nel 1885, la Rover in Inghilterra mise in commercio la sua bicicletta a ruote uguali che nell’arco di vent’anni ha conquistato il mondo con una velocità sorprendente (in Francia già nel 1900 ce ne erano un milione).
I socialisti indicavano ai primi del Novecento la bicicletta come un cavallo di Troia del capitalismo, curiosamente in sintonia con i reazionari che lo vedevano più o meno come il Diavolo, specie se veniva inforcata da una donna.
Scoperte a pedali
In “Finalmente le ali”, un romanzo scritto da Maurice Leblanc, il padre di Arsene Lupin, nel 1898 ma tradotto in italiano solo un paio di anni fa, una gita in bicicletta di due coppie si trasforma nel trionfo del libero amore, con le donne che abbandonano il corsetto, mettono i pantaloni e si scambiano i compagni. Perché inforcare la bicicletta è davvero liberatorio: “ci si sente formidabile, vincitore degli elementi, signore del mondo” – scrive Leblanc.
Una attitudine che non è cambiata nel tempo, in realtà. Come è noto Einstein diceva che l’idea della relatività gli era venuta andando in bicicletta.
Ivan Illich, notissimo filosofo viennese dal taglio anarchico, già negli anni Settanta del Novecento vedeva la bicicletta come il futuro della umanità, soprattutto per il rapporto tra velocità tempo e spazio (Einstein permettendo): per portare quarantamila persone al di là di un ponte in un’ora – spiegava– ci vogliono tre corsie, se si usano treni automatizzati, quattro, se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due corsie se le quarantamila persone vanno da un capo all’altro pedalando in bicicletta.
Nel pieno del boom economico la bicicletta era sembrata declinare in modo irreversibile. La modernità era l’automobile: le grandi fabbriche di biciclette italiane, dalla Bianchi alla Atala, attraversavano una crisi che alla fine le avrebbe portate a far parte di gruppi multinazionali capaci di rilanciare il settore a partire dalla nuova ciclosofia che si fa strada a partire dagli anni Ottanta.
Una ciclosofia (il termine lo si deve a Didier Tronchet) che trasforma un mezzo di trasporto in una visione della vita ecologica, sana, libera. Chi va in bicicletta – spiega Tronchet – è protagonista di un film d’autore, non si separa dal mondo come l’automobilista.
Tutto cambia. il meglio resta
Ma bisogna riconoscere che alla base del nuovo boom della bicicletta, simbolo di tecnologia povera, c’è anche – ennesima contraddizione – di nuovo la tecnologia.
Le biciclette della nuova rivoluzione ciclistica possono essere uguali a quelle di 50 anni fa ma anche diversissime: ultraleggere, col cambio wireless, coi freni a disco, competitive, consumistiche e costosissime.
La sensazione, però, è sempre quella: “La prima pedalata – dice l’antropologo Marc Augé – equivale a una nuova autonomia conquistata, a una fuga romantica, a una libertà che si tocca con mano. (...) In pochi secondi l’orizzonte chiuso si libera, il paesaggio si muove. Sono altrove. Sono un altro, eppure sono me stesso come mai prima; sono ciò che scopro”.
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