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Cin-cin, la fabbrica di birra padovana è in salute. Ecco perché

La Peroni vola sul mercato e allarga lo stabilimento. Un’operazione green, modello per la zona industriale

Cristiano Cadoni
Aggiornato alle 4 minuti di lettura

Lo stabilimento Peroni in zona industriale a Padova, produce tutti i marchi di maggior successo del gruppo

 

C’è una piccola ruspa parcheggiata ai piedi della caldaia, enorme cisterna dove il malto d’orzo si mescola con l’acqua. Nastri bianchi e rossi e un recinto di transenne tagliano in due la sala cotte.

Ma è una divisione temporanea, l’operazione giusta arriverà a breve e moltiplicherà gli spazi produttivi nel cuore dello stabilimento Peroni, in via Prima Strada della zona industriale a Padova. La fabbrica padovana di birra, che dal 2016 è di proprietà del gruppo multinazionale giapponese Asahi Breweries, si prepara a conquistare altri ventimila metri quadrati per assecondare le nuove esigenze del mercato che le chiede di produrre almeno due milioni di ettolitri all’anno, 200 mila in più rispetto a quelli versati in fusti e bottiglie l’anno scorso.

Carlo Artusi, direttore dello stabilimento - uno dei tre a marchio Peroni in Italia, gli altri sono a Bari e a Roma - si scusa perché la presenza del cantiere impone una deviazione nel percorso della visita ma vede già oltre questo periodo complicato: «Oggi lavoriamo al massimo delle potenzialità. Ma tra due anni l’area di fabbricazione, così come quella di confezionamento e quella della logistica, avrà un nuovo assetto».

Un modello

L’ampliamento della fabbrica padovana, spinto da un investimento di 15 milioni di euro (sui 56 che la multinazionale ha previsto di spendere nei tre stabilimenti italiani) promette un aumento dell’occupazione, stimato intorno al 15% e certifica lo stato di salute del marchio.

Ma soprattutto inaugura, a Padova, un nuovo percorso di rimodellamento della zona industriale, in grado di assecondare le esigenze delle aziende senza consumo di suolo. Quello che è successo, insomma, andrà studiato e replicato.

Nel novembre del 2021 Peroni, che nel frattempo aveva rilevato i capannoni inutilizzati della Main Group, proprio di fronte al suo stabilimento, ha chiesto al Comune di occupare la via Quinta Strada, sostanzialmente già a suo uso esclusivo, per potersi allargare fino ai nuovi spazi di sua proprietà.

In quindici mesi, dopo aver studiato tutti i riflessi dell’operazione - compreso l’impatto sul trasporto pubblico, assai contenuto - il Comune ha dato l’ok.

Qualcosa di simile era già successo nel 2000, quando sempre la Peroni si era mangiata la Quinta Strada di allora, spostandola oltre i nuovi muri dello stabilimento.

Il vantaggio è facile da intuire: la fabbrica guadagna lo spazio necessario per operare al meglio, non costruisce su terreni vergini e anzi riqualifica capannoni dismessi. Il Comune incassa un rimborso, circa 420 mila euro, e si trova una viabilità rifatta, nella fattispecie una rotatoria e marciapiedi nuovi.

I riflessi

Con l’aumento della potenzialità produttiva, Peroni inietterà forze nuove in organico, almeno 15-20 persone. «Oggi i dipendenti sono circa 150», racconta Artusi, «130 diretti e una ventina somministrati, anche se il numero di questi ultimi dipende dalle stagioni. Poi ci sono 50 contractor ai quali affidiamo i servizi di pulizia, portineria e logistica».

La fabbrica funziona a ciclo continuo in alta stagione, e quasi continuo in bassa, venti turni consecutivi da sei ore e uno di stop, nel fine settimana, per le pulizie.

In ogni giornata lavorano tre squadre e una riposa. «Ma la fabbrica», va avanti il direttore, «potrebbe funzionare anche solo con 25 persone». E in effetti, attraversando l’area 1, quella delle utilities - dove si producono vapore, aria compressa e si recupera e redistribuisce la Co2, tutti passaggi funzionali alla produzione - salta agli occhi l’assenza di operai impegnati alle macchine.

«Basta un operatore per mandare avanti tutto questo», chiarisce il direttore.

Uno dei laboratori analisi dello stabilimento

 

Il capitale umano

Ma il capitale umano pesa, eccome. Dal mastro birraio agli addetti al controllo e analisi (la proprietà giapponese ha voluto un laboratorio interno con standard farmaceutici e con esame del dna dei micro-organismi), lo stabilimento conta su un buon numero di figure specializzate.

Anche perché l’area 2, quella di produzione, per quanto automatizzata fa venire in mente certi processi magici.

I parametri - temperature, acqua, ingredienti, enzimi - sono ovviamente predefiniti, ma c’è chi riconosce un’anomalia dal profumo.

«E d’altra parte anche gli assaggi si fanno prima di tutto con il naso», rivela Artusi, sorridendo, mentre passiamo davanti alla sala assaggi, dove ci sono le postazioni - simili a cabine elettorali - per le degustazioni.

«Qui produciamo la birra Peroni, ovviamente, e il Peroncino, la Gran Riserva e la rossa. Ma anche la Itala Pilsen, nostro marchio storico, la Wührer, la Kozel, la Asahi e la Nastro Azzurro, che è la più venduta all’estero, soprattutto in Gran Bretagna. Poi, unici in Italia dei tre stabilimenti Peroni, facciamo anche la non pastorizzata».

La scelta green

Quando ha chiesto il permesso per allargarsi, Peroni ha promesso di intensificare gli sforzi per uno stabilimento sempre più sostenibile.

«La nostra casa madre aveva radici in Africa», spiega Artusi, «abbiamo ben presente il tema dell’acqua ed è su quel fronte che siamo molto impegnati.

Non buttiamo via niente che si possa recuperare, anche soltanto per operazioni di lavaggio. Ci approvvigioniamo di energia prodotta da fonti rinnovabili, stiamo andando verso una totale decarbonizzazione. E nel 2030 anche noi, come Padova, saremo carbon neutral».-

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La storica insegna della Birreria Itala Pilsen, ora conservata nello stabilimento Peroni

 

In città una lunga tradizione di birre. Ecco la loro storia.

Il marchio arriva nel 1950 e ora è in mano ai giapponesi

La Birra Peroni, nata nel 1846 a Vigevano, approda a Padova nel 1950. Ma la tradizione birraia della città era già consolidata.

C’era la Birra Maura, fondata nel 1856. E c’era la Birra Cappellari, con fabbrica in via Borromeo, fondata da Luigi Cappellari nel 1895.

Ma a prendersi la scena, dal 1915, è soprattutto la Itala Pilsen, fondata da Arrigo Olivieri (con i soci Giovanni Pietro Frigo, Guido Moschini, Ciro Zacutti e Leone Udine) e dedicata alla moglie Italica Zacutti, detta Italia.

I quattro soci partono rilevando proprio la Birra Cappellari e nel 1923 le cambiano il nome. Poi nel 1927 rilevano anche la Maura, in liquidazione.

Nel 1948 la Itala Piseln è già la quarta azienda italiana e copre il 7 per cento del mercato nazionale. Nel 1950 viene acquisita al 50 per cento dalla Peroni, in piena espansione, e dalla Pedavena. Vent’anni dopo, la fabbrica sarà al cento per cento Peroni.

Ma il marchio Itala Pilsen, le cui insegne campeggiano ancora dentro lo stabilimento di via Prima Strada, non va perduto: nel 2016 si ricomincia a produrla.

Nel 1973 lo stabilimento, che prima era in piazza Insurrezione, si sposta in zona industriale, dove fino a quel momento c’era soltanto il confezionamento.

Altre insegne del marchio Itala Pilsen, che era stato acquistato da Peroni

 

«Ho fondato la piccola fabbrica di birra che porta il mio nome e che avrà un futuro radioso in Italia e nel mondo», si legge lungo in corridoio d’ingresso dello stabilimento. E in effetti la fabbrica di Padova porta la birra in tutto il mondo, essendo quella più orientato all’export.

Fuori dall’Italia ha grande successo soprattutto la Nastro Azzurro, lanciata sul mercato nel 1963 in seguito alla vittoria del Nastro azzurro dell'Atlantico da parte del transatlantico italiano Rex.

Metà della produzione di Padova resta in Italia, metà vola in tutto il mondo, prevalentemente nel Regno Unito, dove di birra se ne intendono. —

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