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Alberta, la custode dell’eredità dello psichiatra Franco Basaglia

Alberta Basaglia è la figlia di Franco, lo psichiatra che ha fatto chiudere i manicomi. Continua la rivoluzione del padre, dalla parte degli inascoltati: “C’è ancora molto da fare”

Alessia De Marchi
3 minuti di lettura

Se tuo padre si chiama Franco Basaglia ed è lo psichiatra che ha “chiuso” i manicomi grazie alla legge del 1978 che porta il suo nome, la rivoluzione è la tua cifra. Alberta, veneziana doc, oggi una splendida signora di 67 anni, è quella bimba che disegnava nuvole mentre nel salotto di casa intellettuali, medici, volontari, giornalisti, cineasti, ..., si confrontavano sul presente e discutevano di “matti”. Lei con il fratello Enrico non faceva caso a quello strano dibattere: era la sua normalità. Come era normale viaggiare verso il sonno della notte cullati dal ticchettio della lettera 22 con cui mamma Franca Ongaro dava corpo alle idee condivise con papà. E poi se guardi il mondo sin da piccola con uno sguardo “sghembo”, perché te lo impongono “quei buchi in fondo agli occhi” che chi sa chiama coloboma, allora a te il diverso non fa certo paura. È in questo clima effervescente e al tempo stesso speciale che è cresciuta Alberta Basaglia con una grande voglia di capire cosa stia dentro a chi hai davanti, senza porre distanze ma costruendo piuttosto ponti.

Chi era per lei Franco Basaglia?

«Semplicemente mio padre, colui che con mia madre mi ha insegnato che le scelte vanno condivise. Dai miei genitori ho appreso l’apertura al cambiamento, la consapevolezza che i diritti vanno riconosciuti e, se non è così, bisogna incidere nel presente affinché la situazione cambi. Allora, erano gli anni Settanta, in casa girava il mondo intero. C’era un bel frastuono e anche noi, bimbi, coglievamo la forza della rivoluzione che mio padre stava portando avanti. Chiudere un manicomio, riportare i matti alla vita, liberarli da camicie di forza e corde usate per legarli agli alberi quando uscivano in giardino, riportare comodini e armadi nelle loro stanze: una sana pazzia per cui mio padre ha lottato credendoci fino in fondo».

Cosa vuol dire “matto”?

«Non bisogna aver paura delle parole, se a esse si attribuisce il giusto valore. In casa mia giravano i matti: come Velio chiamato a dipingere le pareti del nostro appartamento all’ultimo piano del palazzo della Provincia di Gorizia. Abitavamo li da quando papà era stato mandato a dirigere il manicomio di quella città, il primo “liberato” togliendo, giorno dopo giorno, pezzi di disumanità. A Velio avevamo dato chiare disposizioni: tinteggiare di arancio e blu i muri, lui con il suo pennello creò una confusione da disegno astratto. Era un matto-pittore che dopo aver dipinto nella sua testa durante le ore infinite passate da prigioniero, finalmente era libero di esprimere davvero la sua creatività. E con lui tanti altri tornati alla vita».

Alberta e Franco Basaglia nel 1970 

Perché ha scelto di laurearsi in psicologia e non in psichiatria?

«Non ho voluto ripetere le orme di mio padre. Sono rimasta nell’ambito, ma scegliendo un approccio diverso. In quegli anni avevano appena aperto la facoltà a Padova e così ho iniziato il mio percorso personale, ho continuato a modo mio il viaggio di papà tra gli “inascoltati”. A metà degli anni ottanta del secolo scorso, ho iniziato a lavorare al Comune di Venezia. Dapprima mi sono occupata degli asili nido, un servizio fondamentale per le mamme. Quindi abbiamo avviato il primo centro per le donne, gestito da un’amministrazione pubblica, un’esperienza unica in Italia. Nato come punto di riferimento culturale, si è poi sviluppato in uno spazio per il riconoscimento dei bisogni. Negli anni novanta è evoluto in centro antiviolenza. Bambini, donne e poi giovani: per questi ultimi all’inizio degli anni duemila abbiamo attivato servizi ad hoc e anche bellissime iniziative di dialogo e cooperazione internazionale».

Cosa è rimasto della rivoluzione avviata da suo padre nel mondo della malattia mentale?

«Uno spirito che va alimentato. La legge 180 del 1978 ha cambiato il mondo, ha aperto le menti. La nostra cultura non ammetterebbe oggi i manicomi, veri e propri luoghi di tortura e sofferenza per i malati mentali. E questo è stato - ed è - un grande passo avanti. Ma resta ancora molto da fare per dare concretezza alle intuizioni di mio padre raccolte in quella legge. La chiusura dei manicomi andava accompagnata con l’attivazione di una rete di servizi territoriali, prevista nella 180. E su questo fronte diciamo che il Veneto può e deve fare di più. Non basta chiudere una struttura per risolvere il disagio di questi malati e le fatiche dei familiari che li seguono. Servono servizi (centri di salute mentale, comunità...) che diano risposte concrete ai bisogni e alle sofferenze. È necessario tenere alta l’attenzione, continuare a perseguire quell’approccio alla malattia mentale che cozza con i tagli alle risorse per la sanità pubblica. Non c’è molto da inventare, basterebbe applicare quanto legiferato 45 anni fa. Dovremmo dare corpo a quell’esperienza che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto come un ottimo approccio, dovremmo esserne orgogliosi».

Lei, in qualche modo, ne è la custode.

«È la difficile eredità di mio padre, la sua filosofia. È l’Archivio Basaglia il vero custode. A Venezia conserva le sue carte, i suoi libri, i suoi scritti. L’insegnamento più grande è il rispetto di ogni persona, la capacità di saper accogliere chi è diverso».

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