Cartoline sonore: un libro multimediale raccoglie l’acustica irripetibile di Venezia
Il compositore Andrea Liberovici pubblica un volume di acquerelli, poesie e codici Qr che danno accesso all’ascolto: voci e suoni di una città appoggiata sui boschi
Tommaso Miele
Per raccontare Venezia a chi non l’avesse mai vista, o magari far riemergere memorie eteree, sensazioni e visioni di una città unica attraverso le parole, i colori e, soprattutto, i suoi inconfondibili suoni.
Andrea Liberovici, compositore e regista veneziano d’adozione, fondatore del “Teatrodelsuono” con Edoardo Sanguineti, noto anche per i suoi “Ritratti acustici” (esposti alla Galleria d’Arte Moderna di Roma), pubblica “Veneziacustica. Il libro dei suoni nr. 1” (edito da Squilibri e contenente scritti di Gianfranco Vinay e Lello Voce): una serie di suggestioni pittoriche, poetiche e sinestetiche “agganciabili” tramite QR Code per proiettarsi nei luoghi e nei momenti della Laguna, rimanendo in ascolto.
Dal mercato del pesce di Rialto alla nebbia in Piazza San Marco, fino al vociare degli strumenti musicali del Conservatorio con lo sciabordio notturno dell’acqua sugli scafi delle imbarcazioni: un ritratto di città che il figlio di Sergio Liberovici e della cantante Margot Galante Garrone replicherà con altri toni e picchi sonori differenti anche a New York, dove è attualmente in residenza alla Columbia University.
Ascolta la traccia acustica Children’s Corner
Come è nata l’idea di raccontare Venezia attraverso i suoi suoni?
«Tutto è partito da una discussione con Renzo Piano durante una trasmissione su Rai Radio 3, qualche anno fa. Ci domandavamo perché Venezia avesse quell’acustica così particolare e non accomunabile a nessun’altra città “simile”, come la sua Genova, per esempio. La risposta che ci siamo dati è che Venezia è appoggiata sopra una serie infinita di boschi, il legno e la cassa armonica naturale rendono possibili certi miracoli all’udito. Da quella discussione e da quell’intuizione ho iniziato a costruire il progetto “Veneziacustica”, prima del lockdown e nelle sue fase iniziali. Fin da piccolo sono sempre stato infatuato dei suoni e dei rumori di Venezia, giravo in città letteralmente a occhi chiusi quando ero ragazzino. Nelle cartoline sonore del libro ho tentato di catturare l’essenza dei luoghi, che è letteralmente fiorita durante la chiusura di inizio 2020: ho visto delfini, e la copia perfetta di Palazzo Ducale specchiarsi sul Canal Grande nella totale assenza di moto ondoso. Io vivo alla Giudecca, e, nonostante di quel momento storico conserviamo tutti un ricordo piuttosto buio, l’unicità che ha saputo creare per un risveglio della natura, con la nitidezza di ogni dettaglio, la conserverò sempre con me».
Come descriverebbe una sua giornata tipo, a caccia di suoni?
«Ho un piccolo registratore, che uso facendo finta sia un telefono, così le persone non mi notano. Amo ascoltare le chiacchiere dei passanti, soprattutto quelle dedicate ai cani e quando i cani ci sono, perché io stesso sono un accanito cinofilo. Giro sempre con questo strumento in tasca, perché a Venezia spunta ogni giorno qualcosa di nuovo. Non c’è una metodicità, solo mi piace perdermi in varie zone per acchiappare le ispirazioni più disparate».
“Veneziacustica” contiene anche poesie e acquerelli. Quale insegnamento le ha lasciato Sanguineti?
«Per me è stato un grandissimo maestro. Qualche giorno fa ho ritrovato un file, registrato ovviamente, dove chiacchieravamo insieme: al contempo da schiattare dalle risate e da brividi, per la profondità che raggiungeva. Lo conobbi per caso al cinema, durante una proiezione di un film interpretato da Carmelo Bene; quando si riaccesero le luci in sala vidi che era seduto al mio fianco, e iniziai a parlargli. Siamo diventati poi amici, anche se avevo trent’anni meno di lui, e il dono più grande che mi abbia fatto è stato quello di spronarmi a cercare la mia voce, a non imitare nessuno per tentare di capire me stesso».
Come sta andando la sua attuale residenza artistica a New York?
«Sono ospite dell’Italian Academy, alla Columbia University. Mi hanno dato carta bianca, ma la mia idea è quella di procedere come faccio sempre. Il suono è la materia prima, parte tutto da lì: raccolgo i rumori della città, e solo successivamente scriverò un pezzo musicale che li abbracci. Certo, la differenza con Venezia è abissale: Manhattan ha delle pietre sotto, non del legno. Ma le vedo comunque come due facce della stessa medaglia e con dei punti di vista e delle percezioni comuni; staro qui fino a inizio maggio, tentando di capire se le mie sensazioni siano fondate».
“Il racconto uditivo delle città potrebbe continuare anche in altri luoghi?
«Attualmente posso dire che non ne ho idea, ma mi piacerebbe, nel caso, esplorare e inglobare l’essenza di altre zone del mondo. L’India, la Cina o il Giappone, chissà. Per ora mi fermo qui, e il materiale è immenso: New York, se fosse un tempo, sarebbe un Prestissimo. Venezia, un Adagio. Ed è possibile amarle allo stesso modo, come si amano in egual misura due momenti differenti della stessa sinfonia. La magia è proprio questa».
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