La forza tranquilla dell’orso Giorgio
Orsoni avvocato, presidente, sportivo. «Ma resto così, pacato e riflessivo». A 63 anni è uno degli uomini con più incarichi della città Insegna diritto, guida enti e associazioni dalla cultura alla vela
Manuela Pivato
2 minuti di lettura

VENEZIA. Intanto ci pensa. Si accarezza la barba, dà una pulitina agli occhiali, sistema la cravatta, in caso di decisioni particolarmente tormentate accende anche un sigaro, e ci pensa su. Troppo? Qualcuno dice troppo e dice che dovrebbe essere un po’ più sprint, soprattutto adesso - anzi, da un pezzetto - che è il candidato sindaco del centrosinistra contro un candidato sindaco del centrodestra che sembra carico come una Duracell.
Ora che ha riflettuto, Giorgio Orsoni allarga le braccia e dice: «Sono così. Sono moderato, riflessivo e razionale». Veramente è anche pignolissimo, però questo lo dirà dopo, raccontandosi con una lentezza delicata come se dovese spolverare ogni parola prima di pronunciarla.
Giorgio Orsoni, 63 anni, avvocato, casa a San Silvestro dirimpetto a Ca’ Farsetti, uno studio ai Tolentini e un altro a Mestre, coltiva l’accondiscenza come un bisogno personale, disposto ad accettare i suoi difetti quale necessario completamento del suoi pregi.
La sua forza tranquilla l’ha portato negli anni esattamente dove voleva, e forse anche un po’ più in là, al punto da consacrarlo come uno degli uomini più «incaricati» della città: avvocato, professore di Diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Procuratore di San Marco, ex presidente di Save Engineering, vicepresidente della Fondazione Cini, presidente dell’assemblea dell’OUA (il sindacato degli avvocati), presidente della Compagnia della Vela e in più solido borghese, cattolico, buona forchetta, gran bevitore di thè caldo sia d’estate che d’inverno, amante dei libri di storia, velista e padre di tre figli uno più bravo dell’altro, tutto in un sol uomo. Troppo?
Giorgio Orsoni sorride educatamente, come esige quella pacatezza che è il suo tratto distintivo, il suo cavallo di battaglia e, a volte, anche il suo cavallo di Troia. Riservato, mediatore, mai un tono sopra o una riga sotto, più a suo agio tra le sfumature che tra i colori decisi, Orsoni coltiva il low profile della sua indole con una punta di vezzo e l’arrendevolezza di chi sa di non poter essere qualcosa d’altro.
Ad esempio è perfezionista fino al midollo al punto da farsi saltare i nervi da solo con la sua pignoleria e, supponiamo, da farli saltare di tanto in tanto anche ai suoi collaboratori che però si cuciono la bocca e, al massimo, alzano gli occhi al cielo. «A volte mi capita di cercare a tutti i costi la perfezione assoluta e allora non mi sopporto proprio» dice Orsoni senza ombra di pentimento poichè non è possibile pentirsi di ciò che non si sceglie.
«Vero, pondera tutto. E’ fatto così. E’ un uomo solido, determinato, che cerca sempre di avere il consenso degli altri senza doversi imporre con la sua autorità» dice l’avvocato Mariagrazia Romeo, in studio con lui da una quindicina d’anni e dunque testimone oculare del perpetuo ci penso di Orsoni.
L’unica volta che non fu così fu quando conobbe sua moglie, nel ’76, una sera a casa di amici. «Ecco, quella volta usai solo l’istinto - racconta Orsoni - dopo pochi mesi che uscivamo insieme le ho chiesto di sposarmi». Agnese, la ragazza che sarebbe diventata sua moglie, era (ed è ancora) bionda, bella e dolce. Si innamorò subito di quel giovanotto schivo ma che prometteva bene, il cui carattere rispecchiava almeno in parte quello del mammifero plantigrado del suo cognome.
Figlio di un dirigente di banca e di una casalinga, Orsoni venne su come un bravo ragazzo della sana borghesia veneziana, «senza infamia e senza lode», come dice lui, con il tratto distintivo di una celestiaca cascata di riccioli biondi, come quella della pubblicità delle merendine, che sua madre mostrava alle amiche come un trofeo. Come tutti i bambini della sua classe si innamorò della nipote della maestra, l’unica femmina che c’era tra i banchi.
Ora che ha riflettuto, Giorgio Orsoni allarga le braccia e dice: «Sono così. Sono moderato, riflessivo e razionale». Veramente è anche pignolissimo, però questo lo dirà dopo, raccontandosi con una lentezza delicata come se dovese spolverare ogni parola prima di pronunciarla.
Giorgio Orsoni, 63 anni, avvocato, casa a San Silvestro dirimpetto a Ca’ Farsetti, uno studio ai Tolentini e un altro a Mestre, coltiva l’accondiscenza come un bisogno personale, disposto ad accettare i suoi difetti quale necessario completamento del suoi pregi.
La sua forza tranquilla l’ha portato negli anni esattamente dove voleva, e forse anche un po’ più in là, al punto da consacrarlo come uno degli uomini più «incaricati» della città: avvocato, professore di Diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Procuratore di San Marco, ex presidente di Save Engineering, vicepresidente della Fondazione Cini, presidente dell’assemblea dell’OUA (il sindacato degli avvocati), presidente della Compagnia della Vela e in più solido borghese, cattolico, buona forchetta, gran bevitore di thè caldo sia d’estate che d’inverno, amante dei libri di storia, velista e padre di tre figli uno più bravo dell’altro, tutto in un sol uomo. Troppo?
Giorgio Orsoni sorride educatamente, come esige quella pacatezza che è il suo tratto distintivo, il suo cavallo di battaglia e, a volte, anche il suo cavallo di Troia. Riservato, mediatore, mai un tono sopra o una riga sotto, più a suo agio tra le sfumature che tra i colori decisi, Orsoni coltiva il low profile della sua indole con una punta di vezzo e l’arrendevolezza di chi sa di non poter essere qualcosa d’altro.
Ad esempio è perfezionista fino al midollo al punto da farsi saltare i nervi da solo con la sua pignoleria e, supponiamo, da farli saltare di tanto in tanto anche ai suoi collaboratori che però si cuciono la bocca e, al massimo, alzano gli occhi al cielo. «A volte mi capita di cercare a tutti i costi la perfezione assoluta e allora non mi sopporto proprio» dice Orsoni senza ombra di pentimento poichè non è possibile pentirsi di ciò che non si sceglie.
«Vero, pondera tutto. E’ fatto così. E’ un uomo solido, determinato, che cerca sempre di avere il consenso degli altri senza doversi imporre con la sua autorità» dice l’avvocato Mariagrazia Romeo, in studio con lui da una quindicina d’anni e dunque testimone oculare del perpetuo ci penso di Orsoni.
L’unica volta che non fu così fu quando conobbe sua moglie, nel ’76, una sera a casa di amici. «Ecco, quella volta usai solo l’istinto - racconta Orsoni - dopo pochi mesi che uscivamo insieme le ho chiesto di sposarmi». Agnese, la ragazza che sarebbe diventata sua moglie, era (ed è ancora) bionda, bella e dolce. Si innamorò subito di quel giovanotto schivo ma che prometteva bene, il cui carattere rispecchiava almeno in parte quello del mammifero plantigrado del suo cognome.
Figlio di un dirigente di banca e di una casalinga, Orsoni venne su come un bravo ragazzo della sana borghesia veneziana, «senza infamia e senza lode», come dice lui, con il tratto distintivo di una celestiaca cascata di riccioli biondi, come quella della pubblicità delle merendine, che sua madre mostrava alle amiche come un trofeo. Come tutti i bambini della sua classe si innamorò della nipote della maestra, l’unica femmina che c’era tra i banchi.
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