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Angela Bassett in Wakanda. Foto courtesy IPA
Angela Bassett in Wakanda. Foto courtesy IPA 
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Ruth E. Carter: Vesto l’orgoglio nero

La costumista premio Oscar punta al bis con Black Panther. Wakanda. Qui spiega come la sua ispirazione arrivi dai libri. E dalle tradizioni tribali

3 minuti di lettura

L’attesa è stata lunga, ma il momento è arrivato. Mai mi sarei aspettata di poter fare di questo lavoro una professione: a Pittsburgh, dove sono cresciuta, disegnare o cucire abiti era considerato al pari di un hobby, un’oretta di fai-da-te. Non avevo mai sentito parlare di afroamericane che lavoravano per il cinema». Sorride orgogliosa Ruth E. Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar (nel  2019, con Black Panther) e ora verso il bis con una nomination per Black Panther. Wakanda Forever
Ma il suo impegno, e il suo valore, non sono circoscritti a Hollywood: Ruth è una paladina dell’Afrofuturismo, corrente culturale che va da Sun Ra a Janelle Monáe, al centro dello showcase Afrofuturism in Costume Design all’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles. È qui che incontriamo Carter, un’eroina dell’orgoglio black, che ha appeno concluso un tour itinerante per l’America della mostra Heroes & Sheroes con i costumi che ha creato in 30 anni di cinema e tv. «Sono felice. Non per me, ma per le tutte le donne e le ragazze afroamericane, è giusto sappiano che c’è spazio anche per loro. Black Panther è stato un film importante, ha abbattuto gli stereotipi e la rappresentazione dei personaggi neri». 

Persone e influenze nella carriera della costumista e premio Oscar Ruth E. Carter: da Martin Luther King a Spike Lee di Fa’ la cosa giusta e Angela Bassett in Wakanda (in apertura). Foto courtesy Ruth E. Clarke - AP - Getty - Everett/Contrasto - IPA. In apertura IPA
Persone e influenze nella carriera della costumista e premio Oscar Ruth E. Carter: da Martin Luther King a Spike Lee di Fa’ la cosa giusta e Angela Bassett in Wakanda (in apertura). Foto courtesy Ruth E. Clarke - AP - Getty - Everett/Contrasto - IPA. In apertura IPA 

Sarà stato diverso nel 1988, quando ha iniziato con Spike Lee. Cosa ricorda di quella collaborazione?
«Ho conosciuto Spike quando lavoravo al Los Angeles Theatre Center. Mi assunse per Aule turbolente e da allora siamo un team. Fa’ la cosa giusta è un film a cui tengo particolarmente: è vibrante, una protesta surrealista. Avevamo un budget ridottissimo, quindi ho lavorato tanto con il product placement: Nike ci ha dato di tutto, dalle scarpe alle canottiere, ma avevano colori molto saturi così ho inserito tessuti africani per bilanciare. Spike e io siamo ancorati alle nostre radici, le comunità che vogliamo rappresentare. Non sarei mai arrivata qui senza le esperienze che ho fatto insieme a lui».

Altre fonti di ispirazione? 
«Si potrebbe pensare che siano Yves Saint Laurent, Dior, Balenciaga o Alexander McQueen... Invece sono da sempre i libri, fin da quando ero ragazza e ho scoperto autori come Zora Neale Hurston, Lorraine Hansberry, James Baldwin...  Ne sono rimasta affascinata. I loro personaggi erano così reali che desideravo vestirli, immaginare i loro look. Il cinema mi ha permesso di realizzare le mie fantasie».

Per film storici come Selma o The Butler che tipo di ricerche fa? 
«La storia dell’abbigliamento è una risorsa infinita, una fonte illimitata di idee. Di solito cerco scatti di una determinata epoca, sempre che la fotografia esistesse in quel periodo. Piccoli indizi non solo di cosa la gente indossasse, ma anche di come. Spesso le modalità erano completamente diverse da quelle di oggi. A volte prendo ispirazione da un tessuto, altre volte dalla forma, come quella degli zoot suit (i completi da uomo anni 50, a vita alta e spalle esagerate, ndr) che era molto specifica. Oppure parto dalla praticità di un trench coat indossato durante una protesta per i diritti civili. In Malcolm X ho studiato tantissimo fotografi di epoche diverse dagli anni 20 ai 60».

In che modo pensa di contribuire nella ricostruzione della storia degli afroamericani? 
«Soprattutto quando lavoro a film che si svolgono nel passato, che raccontano il viaggio degli africani in America. Per Wakanda, mi sono ispirata alle tecniche tribali e ai dettagli dei loro ornamenti. Ci sono migliaia di tribù in tutto il continente, ma ne ho scelte una dozzina per rappresentare quelle di Wakanda. Il costume delle guerriere Dora Milaje è caratterizzato dalla lavorazione del cuoio degli Himba, dalle perline dei Turkana e dalle armature degli Ndebele. Volevo trasformare i supereroi di Black Panther in futuristici re africani senza perdere il riferimento alle tradizioni. Vedi il motivo del triangolo Okavango, che rappresenta la geometria sacra della regalità africana che ha un forte significato culturale e spirituale».

Lei è anche una delle artiste più rappresentative dell’Afrofuturismo. Come si è evoluto dagli anni 70? 
«È stato fondamentale per le nostre comunità: è nato come movimento culturale-creativo per promuovere una nuova filosofia per i neri americani e liberarli dal trauma della schiavitù e del colonialismo. Per Black Panther, in cui il popolo di Wakanda utilizzava risorse naturali per creare tecnologie avanzate, era molto importante creare un costume che non sembrasse “un costume” e avesse riferimenti sociali importanti. Il regista Ryan Cooler voleva che le donne guerriere fossero prese sul serio, non fossero sessualizzate come lo sono nei fumetti. Così ho realizzato un’armatura di pelle che proteggesse e al tempo stesso valorizzasse il corpo, poi ci ho aggiunto piccoli sonagli, in omaggio alle musicalità tribali». 

Una bella responsabilità nei confronti delle eredità culturali... 
«Certamente, voglio che i miei costumi resistano alla prova del tempo e che fra 30 anni la gente li trovi ancora attuali. Non faccio documentari, lavoro per la fiction e l’immaginazione, ma credo che non si debba mai dimenticare il proprio passato e le ragioni per cui siamo arrivati fino a qui. Facciamo spettacolo, ma viviamo nella realtà».