"La teoria che diventa pratica è quella che tiene vivo il fuoco dentro", racconta da New York Mariarosa Cutillo, esperta di diritti umani e a capo dell’Ufficio partnership strategiche al fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), l’agenzia che si occupa di women empowerment, salute sessuale e riproduttiva. Dallo scorso aprile nell’Advisory council per il diritto all’inclusione e la diversity del gruppo Prada, ha lanciato il progetto pilota Fashion Expressions: The Stories She Wears.

Di che cosa si tratta?
«Volevamo mostrare che anche la moda può contribuire a rafforzare le donne nelle comunità più lontane e disagiate facendo avanzare la parità di genere. Dura sei mesi e coinvolge 45 ragazze tra i 17 e i 31 anni, provenienti da background svantaggiati di Kenya e Ghana, Paesi dove c’è una scena emergente molto vivace in fatto di moda. Ma non si tratta solo di fornire conoscenze e competenze pratiche per il loro futuro professionale, perché parallelamente promuoviamo una più profonda comprensione dei diritti sessuali e riproduttivi. Vogliamo davvero avere un impatto sulle comunità e non lasciare nessuna indietro».
Come ne verificherete la riuscita?
«A metà del percorso valuteremo le prime creazioni realizzate per poi pensare a un’eventuale fase di espansione. L’idea è quella di connettere le ragazze alle associazioni di categoria locali per offrire loro sbocchi professionali anche perché in questi due Paesi c’è una grande tradizione di sviluppo dei tessuti e stanno nascendo le prime Camere della moda. Al termine dei sei mesi, poi, le tirocinanti organizzeranno una sfilata per presentare i loro lavori in Ghana e in Kenya».
Lei dice che all’Onu c’è una propensione sempre più grande a sviluppare collaborazioni col settore privato. Il mondo corporate, dall’altra parte, è anche nel mirino di associazioni che hanno l’obiettivo di smascherare eventuali operazioni di marketing. Pensa che in questo momento storico il settore privato possa fare la differenza?
«Assolutamente, credo che possa rendere il mondo migliore. Ma l’impegno deve essere genuino e misurabile. Quando sviluppo una partnership col privato guardo due cose: quello che succede dentro l’azienda a livello di rispetto dei diritti umani e l’impatto sulla comunità locale da un punto di vista sociale e ambientale. Nel 2024 celebreremo i 30 anni dalla Conferenza internazionale per la popolazione e lo sviluppo del Cairo e stiamo formando una coalizione molto estesa di aziende che presenteremo a Davos 2023 per stabilire criteri sul modo in cui i diritti sessuali, riproduttivi, di inclusione e diversity vengono applicati sul posto di lavoro, nei confronti dei consumatori e delle comunità. Aggiungo anche un’altra cosa che ho notato quando insegnavo all’università: oggi c’è una nuova generazione di manager e aziende che capiscono l’importanza di questi temi in un modo inimmaginabile anche solo 15 o 20 anni fa. Quindi sono speranzosa».
Al tempo stesso però, tra pandemia, guerra in Ucraina e crisi umanitaria in Afghanistan, i diritti delle donne stanno facendo degli incredibili passi indietro.
«Certamente la pandemia ha avuto conseguenze devastanti sulle donne a causa della distruzione dei sistemi di salute pubblica. Poi, certo, ci sono i conflitti e le situazioni umanitarie. Ma il messaggio che dobbiamo lanciare è che malgrado ciò, tutti, compreso il settore privato, devono mantenere gli impegni sottoscritti per arrivare agli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che è un atto di responsabilità condivisa (L’Agenda è stata firmata nel 2015 da 193 Paesi e il quinto obiettivo riguarda proprio l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione, ndr). Per questo è importante tenere alta l’attenzione. Il nostro ultimo rapporto sullo stato della popolazione Vedere l’invisibile ci dice che più della metà delle gravidanze nel mondo non è stato pianificato. Parliamo di 121 milioni l’anno di cui il 60% termina in aborti e quasi la metà di questi sono clandestini».
Sono cifre terrificanti.
«Ma quanti le conoscono? Se solleviamo il velo su questa realtà e informiamo il pubblico, allora la responsabilità dei governi aumenta. Se tutti fanno la loro parte – politici, settore privato, accademico eccetera – il trend allora si invertirà».
Qual è il progetto che l’ha resa più orgogliosa alle Nazioni Unite?
«La campagna Safe Birth Even Here che si occupa di salute materna e nascite sicure in contesti umanitari. Quando arrivai all’Onu erano gli anni dei grossi sbarchi in Italia e non si parlava mai di mamme, un po’ come se non esistessero. Nel gennaio 2016 lanciammo questa campagna che ha messo insieme tanti enti e tante aziende: insieme, abbiamo lavorato molto per raccogliere fondi da destinare alle madri in situazioni a rischio».
Da head of corporate social responsibility del Gruppo Benetton fino all’Onu. Come ci è riuscita?
«Da Benetton mi sono sempre occupata di diritti umani: è stata un’esperienza preziosissima. Le Nazioni Unite cercavano qualcuno che potesse mettere insieme i due linguaggi: settore privato e diritti. Quando mi sono laureata in Diritto internazionale, l’ho fatto con quell’intelligenza raffinatissima di Luigi Condorelli , il sogno era andare a lavorare all’Onu. Ma la vita mi ha portato su altre strade. Prima in Bangladesh con i dalit (gli intoccabili), poi in India e, ancora, a lavorare per ong come Mani Tese. A un certo punto le stelle si sono allineate: i manager della sostenibilità e dell’inclusione hanno iniziato a essere sempre più richiesti. Ero la persona giusta al momento giusto. Mi hanno chiamata e ho passato le selezioni. Così sei anni e mezzo fa ho fatto la valigia e sono partita per New York con tutta la famiglia. Quello di direttrice dell’Ufficio partnership con il settore privato delle Nazioni Unite è una posizione nuova e, se mi guardo alle spalle, mi sono sempre trovata in ruoli innovativi. Poter creare qualcosa da zero è la cosa che mi entusiasma di più perché permette di crescere, un’opportunità che io e tutto il mio team abbiamo la possibilità di sperimentare ogni giorno».