Ero in un negozio per comprare una lampadina, quando a un certo punto è entrato un tizio bellissimo, sembrava un modello di quelli che si vedono solo nelle sfilate. Dopo aver calamitato lo sguardo di tutti, uscì. Mi sorprese quello che una commessa disse all’altra: “Ma hai visto chi è uscito? Quello è Gazebo!”», mi racconta Paul Mazzolini, ovvero il vero Gazebo, primo e più popolare campione internazionale dell’Italo-disco al suo apice (l’83). «Quel giorno ho capito che la gente aveva di me un’immagine che non corrispondeva alla mia quotidianità, così ho abbassato la testa e sono uscito dal negozio con la coda tra le gambe». Anche il compositore Pierluigi Giombini, che ha scritto la musica di pezzi allora epocali di Gazebo, Masterpiece e I like Chopin, e anche Dolce vita per Ryan Paris (al secolo Fabio Roscioli) su testo di Gazebo, ha una storia sui negozi. «Dovevo scegliere una camicia, e mi sono fatto accompagnare da una conoscenza recente. Una volta entrati, nell’aria si diffusero le note di I like Chopin. Così ne approfittai: “Mi hai chiesto che tipo di musica compongo? Bene, questa è mia”. Lei strabuzzò gli occhi: “Ma questa è I like Chopin! Da ragazza avevo il disco. E vorresti farmi credere di averla scritta tu? Seeeeee…».
I successi di allora compiono 40 anni
Sono due aneddoti, ma emblematici: gran parte del fascino dell’Italo-disco (i cui grandi successi, Dolce vita e I like Chopin compiono quarant’anni) risiede proprio in queste identità sovrapposte e innocentemente ingannevoli. Furono questi spiragli su una nuova dimensione colorata (del disimpegno e dell’evasione) a soccorrere l’Italia uscita sofferente dagli anni di piombo. «Alla fine dei 70, se eri un capellone come me e passeggiavi ai Parioli, rischiavi le botte. Viceversa, se avevi i capelli cortissimi e camminavi a Testaccio rischiavi le botte per motivi opposti», ricorda Mazzolini. «Certe sere, a piazza Navona, c’era l’esercito e non si poteva camminare. Invece negli anni 80 è tornata la voglia di divertirsi, di andare in discoteca, di cambiare immagine: sono esplosi Armani e Versace, si sono aperti nuovi orizzonti, una spensieratezza nuova». Ben fotografata dai ritmi ridenti dell’Italo-disco che evoca, ovunque la si ascolti, un “altrove” immaginario ed enigmatico.
Ma il paradosso, allo stesso tempo, è che questo genere appariva “americano” agli italiani – per gli pseudonimi esterofili dei cantanti e i testi in inglese – e “italiano” agli stranieri, per l’impronta melodica e la freschezza scaturite dalla necessità trasformata in quattro e quattr’otto in virtù: un’arte di arrangiarsi che diventa una più musicale arte di arrangiare. Il termine Italo-disco, e la sua connotazione di oggetto del desiderio, nasce infatti in Germania nel 1982, sulle copertine delle compilation pubblicate dall’etichetta ZYX. «I primi anni 80 sono stati un momento di grande fermento musicale. E con l’Italo-disco, e credo per la prima volta con il mio Masterpiece, si mescolava ai brani dance floor la New Wave e il New Romantic inglese. Erano gli anni del Blitz Club, dove sono nati Boy George, i Duran Duran e gli Spandau Ballet...», spiega Mazzolini. «A livello estetico si è mescolata la moda decadente dei film in bianco e nero anni 30, che veniva ripresa dal New Romantic e che io mettevo in scena impersonando il “bel tenebroso” in smoking, alla musica elettronica nascente, grazie a strumenti nuovi che permettevano sonorità molto diverse dal rock e dalla progressive anni 70. Si potevano avere suoni articolati e complessi senza dover fare per forza musica complessa: si poteva far suonare in modo interessante anche pochissime note. Riuscimmo a mescolare New Wave inglese e Neue Welle tedesca, dei Kraftwerk, al forte senso della melodia italiana. Così nacque quella cosa nuova che chiamarono “Italo-disco”».
«All’inizio abbiamo bluffato un po’. Perché c’era parecchio provincialismo, le case discografiche a cui io e Giombini proponemmo Masterpiece non lo volevano, ritenevano assurdo per degli italiani competere con artisti anglosassoni nella loro lingua», spiega Mazzolini. «Così producemmo Masterpiece grazie a un deejay, Paolo Micioni, che ebbe l’idea di dare un ritmo più “dance” alla canzone in modo che avesse successo in discoteca. La copertina del discomix era tutta bianca con solo scritto, a matita, “Masterpiece – Gazebo”. Avevo tratto questo nome dal testo della versione estesa che diceva: “Eccomi, appoggiato a un gazebo in questa mega-festa hollywoodiana. E mi sembra di vedere nella nebbia l’ombra di Rodolfo Valentino”. Essendo un termine internazionale, Gazebo poteva benissimo indicare un artista straniero. I deejay, ignorando che fosse un prodotto italiano, lo ascoltavano senza pregiudizi e si innamorarono subito».
Lo snobismo delle grandi case discografiche gli si rivoltò contro. «Fu grazie alle piccole case indipendenti che queste canzoni ebbero successo», spiega Giombini. «All’epoca registrare un disco non era come oggi, che ti bastano un computer e due casse: allora dovevi passare una o due settimane in sala di registrazione, pagando 800mila lire al giorno. Ricordo che portai Dolce vita alla Rca, e lì un discografico che mi stimava mi disse: “Eh Pierluigi, ma non è forte, non è commerciale”. “Ma come te la devo fare? Più commerciale di così!”, rispondevo io. “Sì, ma il cantante (Fabio Roscioli, ndr) è uno sconosciuto”. “Sì, ma sei tu che lo devi far diventare famoso: io ti porto la canzone di successo e l’artista, è lavoro vostro farlo diventare una celebrità. Sbaglio?”». Poi, prima grazie a produttori, distributori indipendenti e grossisti di dischi – Micioni a Roma, Discotto e Discomagic a Milano – e poi alla Baby Records di Freddy Naggiar, i lavori di Giombini e Mazzolini sono diventati successi internazionali. «Gazebo è stato numero 1 in Germania, Spagna e Giappone. Quando ho visto la hit parade Uk con Dolce vita al terzo posto ed Elton John al quinto, mi sono detto: “Deve esserci un errore”», scherza Giombini. «E la risate quando i grossi discografici hanno cominciato a cercarmi: “Mi chiami perché sono al numero 1, fosse per te non sarebbero manco al 1.000!”. “Ma ora è diverso: sono famosi”. “Famosi sì”, ribattei. “E ormai hanno la loro casa discografica, bello: troppo tardi!”». Così sfacciato. Così “italo”.