Coniglietti e topolini erano le cavie più usate. Ma anche pesci, porcellini d’india, ratti, cani. Su di loro si testavano le nostre creme, gli shampoo, le lozioni. Ogni prodotto cosmetico (e, ovviamente, non solo quelli). Poi sono iniziate le battaglie animaliste e la coscienza della gente si è risvegliata. In Europa dal 2004 vige il divieto di testare su qualsiasi animale tutti i prodotti cosmetici finiti. Nel 2009, il bando si è allargato ai singoli componenti di creme & Co. ma è il marzo 2013 ad aver segnato uno spartiacque. «Da quella data è partito anche il divieto di importare in Europa prodotti cosmetici testati in altri Paesi, dove le leggi locali lo consentono», spiega a d Michela Kuan, responsabile della Ricerca senza animali della Lav, la Lega anti vivisezione. «Va detto che quel divieto si è trasformato in un’opportunità: da quel momento l’industria cosmetica è esplosa, il bando è stato motore di cambiamento, le aziende hanno investito tantissimo sulle tecniche in vitro per costruire in laboratorio pelle umana sulla quale fare i test alternativi. E da quei laboratori sono nati brevetti che poi sono stati utilizzati, anche in campo farmaceutico e chimico. Non esagero quando dico che è stata una rivoluzione scientifica».
La direttiva Ue, la prima nel suo genere al mondo, è stata importante perché ha condizionato il mercato globale: così anche Brasile, India, Corea del Sud, parte della Russia, Stati Uniti, come conseguenza, hanno cambiato le proprie leggi in difesa degli animali. Tra i grandi Paesi solo uno rimane a favore delle cavie: la Cina. «Non abbiamo dati precisi, ma si stima che ogni anno in Cina vengano usati per questo scopo circa 200.000 animali», ci dice Julia Baines, manager delle politiche scientifiche di Peta, organizzazione internazionale per il trattamento etico degli animali. «Ma si stanno facendo progressi: dal maggio 2021 la Cina permette alle aziende di vendere, senza aver fatto test animali, prodotti di uso generico come shampoo, bagnoschiuma, lozioni e makeup. Mentre cosmetici con uso specifico, come shampoo contro la forfora, sbiancanti per la pelle e tinte per capelli, vanno ancora sperimentati prima della loro commercializzazione». In questi casi gli animali vengono trattati in modo disumano. I test tossicologici sono molto invasivi e possono durare mesi, anche quando le cavie sono in stato di gravidanza. Alcune sostanze vengono iniettate negli occhi o spalmate sulla pelle rasata mentre gli animali sono immobilizzati. Soffrono di irritazioni, corrosioni, bruciature e al termine degli esperimenti spesso vengono uccisi, spiega Kuan. Per accedere al lucroso mercato cinese non c’è via d’uscita e molte case cosmetiche non rinunciano, anche se vengono costrette a sperimentare su cavie vive alcuni prodotti.
Anche in Europa, del resto, ci sono ancora alcuni gap normativi e in certi casi, ormai rari, è possibile eludere il divieto di test. «Se all’interno di un prodotto sono contenuti ingredienti di origine non cosmetica, ma per esempio chimica o farmaceutica – come alcuni filtri solari –, questi non seguono la norma del marzo 2013 e quindi possono essere testati sugli animali», segnala la rappresentante di Lav.
«Per le aziende può essere complicato», spiega Clara Sasso, responsabile regulatory affairs di L’Erbolario. «Ma quelle certificate cruelty free come noi, dal momento in cui sottoscrivono lo standard internazionale “Stop ai test su animali”, non possono utilizzare ingredienti testati su cavie anche per scopi differenti da quello cosmetico (per esempio componenti di origine chimica)». L’unica certificazione cruelty free riconosciuta globalmente è quella dell’associazione Leaping Bunny (il famoso coniglietto che salta), gold standard in tutto il mondo, in Italia gestito da Lav. «Per ottenerla bisogna impegnarsi a non effettuare test su animali né a commissionarli», prosegue Sasso. «Dobbiamo monitorare tutti i nostri fornitori per accertarci che le materie prime siano conformi e non provengano dall’uccisione di animali. L’ente terzo certificatore, che ispeziona gli ingredienti tutti gli anni, è l’Icea (l’Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale con sede a Bologna, ndr). Il costo della certificazione? Lo 0,1% del fatturato». Ma non tutti i marchi sentono il bisogno di ottenere questo logo a tutti i costi. «L’Europa ha la legge più tutelativa del mondo, i consumatori sanno che il prodotto commercializzato in Ue non è testato su animali quindi le certificazioni sono considerate inutili e superflue», commenta Rita Rizzi, chimica di formazione e amministratrice delegata di RF Cosmetici, terzista che produce anche per grandi brand del beauty.
Ma come vengono fatti i test alternativi? I consumatori possono stare tranquilli? La sicurezza delle sostanze viene testata su pelle coltivata in vitro con tecniche che si sono evolute in questi anni e che ormai sono in grado di permettere la ricostruzione in laboratorio di tessuti completi tridimensionali e stratificati in epidermide e derma. È possibile anche diversificare l’incarnato producendo modelli di pelle invecchiata e pigmentata ad hoc, secondo l’interesse dei ricercatori.
Aziende leader come Episkin (del gruppo L’Oréal, con sede a Lione) ed EpiDerm hanno sviluppato protocolli (riconosciuti e validati dall’agenzia regolatoria europea Ecvam) che utilizzano le case cosmetiche e farmaceutiche di tutto il mondo. Esistono anche tecniche basate su modelli computerizzati in grado di predire, una volta conosciuti gli ingredienti, che cosa potrebbe succedere alla pelle se trattata con un prodotto specifico. Infine, superati i test di sicurezza in vitro, si passa a quelli sugli uomini. E solo per valutare l’efficacia.
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