
Non c’è il lupo cattivo, il nemico qui è il termometro che, in pieno aprile, segna meno quattro sottozero e gela i fiori delle mele.
Tradotto in prospettiva, significa 50.000 quintali di raccolto perso quando, in autunno, quei fiori non potranno più trasformarsi in frutta. Ma siamo in una favola vera e, come da copione, ci sono i personaggi buoni e la formula magica che, all’improvviso, risolve tutto. E siamo saliti fin qui per viverla e raccontarla.

Sono le cinque del mattino, il buio e il freddo nascondono le montagne che serrano la valle a pochi chilometri da Tirano. Qui passa la lingua di terra dove scorre l’Adda e dove i meleti contendono spazio alle case supera a stento i due chilometri di larghezza: poi, sui versanti montani, iniziano i muretti a secco che delimitano i terrazzamenti delle viti di Nebbiolo. Più su il bosco e, salendo ancora, la neve sulle cime delle due catene che quasi si sfiorano, le orobiche a sud e le retiche dirimpetto, a separare la Valtellina dai Grigioni svizzeri che, qui, parlano romancio.

La magia che salva tutto ha una formula solo in apparenza contraddittoria: “il gelo per sconfiggere il gelo”. E allora, si accendono i sistemi di irrigazione che bagnano le piante, dove l’acqua gela e, paradossalmente, va a proteggere i fiori e le foglioline che, spinte dal caldo delle settimane passate, hanno preso a crescere sulle piante.

Sembra il giardino di un castello di ghiaccio. Il freddo, il sonno, la luce che piano piano fa capolino dalla montagna sospendono ancora l’illusione dell’irreale. Ma in realtà è tutto vero: acqua, ghiaccio e il sole che, prendendo il suo posto nell’incedere della mattinata, piano piano manda all’aria i piani del demone del gelo.

“Per me un bianco!”
Accidenti se il tempo vola. La pendola sopra il bancone segna già le undici e, perbacco, è la mia tarda colazione a essere del tutto fuori posto all’ora dell’aperitivo.
Ma i caffè oggi sono tanti, quanto i coltivatori di mele reduci da un superlavoro che li ha tenuti svegli tutta la notte e che, come me, rubano i pochi secondi di caldo qui al bar prima che arrivi il bicchierino di carta da bere fuori. Le regole sono rigide come il termometro.

“E’ stata dura, abbiamo dovuto tenere accesi gli impianti più di dodici ore, dalle dieci di ieri sera” raccontano.
In effetti, capita almeno una volta all’anno. Qualche tempo fa, successe addirittura a ridosso del mese di maggio: “Questo è uno dei periodi più insidiosi, perché il ghiaccio delle gelate tardive sulle piante in fiori può essere tanto devastante quanto quello di una grandinata estiva”.


A Bianzone c’è l’impianto più grande, gestito a livello consortile: viene attivato già a mezzo grado sopra lo zero, quando il trend delle temperature è in discesa.
Rimedi semplici ma efficaci. Del resto qui è fondamentale aguzzare l’ingegno per dare futuro a un’agricoltura che, nella sua quotidianità, sfida il freddo e la montagna. Del resto, proprio qui sorsero già migliaia di anni fa i primi i muretti a secco che ancor oggi delimitano vigneti e meleti (alcune coltivazioni di frutta, salendo verso Grosotto, arrivano a 700 metri di quota).



Fine della storia. Per ora. Perché già la prossima settimana, il copione potrebbe ripetersi, con il termometro che minaccia di tornare sottozero e di riportare, forse, anche la neve in fondovalle: in questo caso, il giardino del castello di ghiaccio è pronto a fare di nuovo capolino, per difendere quello che è – senza tema di smentita – il frutto simbolo delle favole.