In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni

"L'Amazzonia è il respiro del mondo: non lottiamo solo per la nostra sopravvivenza"

L'allarme lanciato dalle comunità di indios assediate da incendi e isolate a causa del Covid-19. "L'industria petrolifera e le miniere illegali non si sono fermate. E noi rischiamo di essere spazzati via dalla pandemia"
2 minuti di lettura
Prima l’acqua. Poi l’aria. Ora i corpi. Non c’è un luogo fisico o spirituale rimasto illeso dal contatto con il mondo "fuori".  E non sorprende che i popoli dell’Amazzonia ecuadoriana guardino con rabbia e disperazione a quest’ultima invasione che mette a rischio la loro sopravvivenza: il coronavirus.

"Siamo stati i primi a registrare un contagio", racconta Justino Piaguaje, presidente della nazione indigena dei Siekopai, una popolazione divisa tra Ecuador e Perù. La comunità ecuadoriana conta 700 persone che vivono principalmente nella provincia di Sucumbìos, nel Nord del paese. "Non avevamo né informazioni né test per capire se alcuni malati avessero il Covid così, per curare alcuni sintomi, abbiamo usato delle piante della foresta. Alla fine siamo riusciti ad avere dei kit per fare i test grazie ai volontari, ma nel frattempo abbiamo perso quattro anziani".

La risposta del governo, occupato a gestire un’emergenza senza precedenti ha tardato ad arrivare e si è rivelata inadeguata. Vittima di feroci tagli sia nel 2018 che nel 2019, il sistema sanitario ecuadoriano ha mostrato tutta la sua fragilità e non ha saputo contrastare un tasso di contagio tra i più alti al mondo. "Abbiamo visto – testimonia William Lucitante rappresentate del popolo Cofan (un’etnia di circa 1300 persone divise tra Ecuador e Colombia) - che chi andava in ospedale spesso non tornava e così abbiamo preferito non andarci. Siamo stati abbandonati, isolati, e ora non ci fidiamo delle istituzioni".

"Ogni giorno con le pistole puntate contro per difendere l'Amazzonia: è la nostra vita"


Una distanza come quella tra città e foresta che il governo non è riuscito a colmare. Inizialmente alcune province amazzoniche sono state del tutto ignorate dalle mappature ufficiali dei casi. Un conteggio, poi elaborato (con tutti i limiti di una raccolta dati su base volontaristica) dalla Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador, che ha poi rivelato una massiccia presenza di casi: al 14 ottobre erano circa 3130 i positivi e 103 i morti.

C’è chi guarda a questa esclusione come a un tentativo di salvaguardare le attività estrattive concentrate proprio sui territori delle comunità indigene amazzoniche. "Quando è stato dichiarato lo stato d’emergenza in Ecuador, l’industria petrolifera non si è fermata –  sottolinea Lucitante – e nonostante i casi presenti nella provincia di Sucumbìos, il governo ha fatto finta di niente perché temeva che se la gente l’avesse saputo avrebbe smesso di lavorare". Ma proseguendo l’estrazione, ha continuato anche il flusso di lavoratori che da altre province arrivavano nella foresta, aumentando così la possibilità di portare con sé il virus.

Quella tra le popolazioni dell’Amazzonia ecuadoriana e l’industria petrolifera è una battaglia che si protrae da decenni e che dagli anni ’90 si è tradotta in uno dei processi ambientali più importanti e complessi della storia mondiale. Gli indigeni delle province di Sucumbìos e Orellanna hanno accusato la multinazionale petrolifera statunitense Chevron-Texaco di aver avvelenato le acque dei fiumi e le falde acquifere con continui sversamenti di petrolio e sarebbe quindi responsabile del disastro ecologico noto come "Chernobyl dell’Amazzonia".

Oggi la situazione non è cambiata nonostante gli impianti siano stati rilevati dalla Petroecuador, compagnia di bandiera. Solo nell’Amazzonia ecuadoriana sono presenti decine di macheros, torri che bruciano il gas naturale estratto assieme al petrolio. Oltre al gas flaring, l’ecosistema è minacciato anche dalle infrastrutture obsolete. "Il 7 aprile la rottura di un oleodotto ha provocato la fuoriuscita di circa 15 mila galloni di petrolio che si sono riversati nel fiume Coca: acque necessarie per la sussistenza di alcune comunità indigene in isolamento", denuncia Valentina Vipera coordinatrice dei progetti Focsiv in Ecuador.

L’estrattivismo, le coltivazioni intensive e la povertà mettono in pericolo la sopravvivenza di queste popolazioni indigene. Ma quella del coronavirus rappresenta una minaccia ancora più radicale perché attacca le fondamenta delle comunità: la memoria. "Le nostre conoscenze non sono scritte – continua Lucitante -  sono custodite nella memoria degli anziani. Così quando loro muoiono, perdiamo una parte di quel sapere. In quanto membro del popolo Cofan, temo che questa pandemia possa cancellarci per sempre".
 
"Ci chiamano paesi del terzo mondo – conclude il presidente dei Siekopai Justino Piaguaje - ma siamo noi quelli che pagano le conseguenze delle azioni sconsiderate dei paesi ricchi. Per noi l’Amazzonia è una casa comune, un grande albero che dà la vita. Che dà la conoscenza. È un mistero che protegge la nostra popolazione, ma noi stiamo lottando per salvare l’Amazzonia di tutti, affinché il mondo possa continuare a respirare".